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Infortunio e psicologia

Come si correla la psicologia del soggetto alla sua probabilità di infortunarsi? Gli addetti ai lavori inondano gli atleti con cifre, tabelle, statistiche, ricerche per mostrare come sia possibile prevenire gli infortuni. Il guaio è che queste ricerche sono spesso contraddittorie: c’è chi promuove lo stretching e chi lo giudica ininfluente, chi esalta i plantari e chi li ritiene solo una grande trovata commerciale, chi punta il dito sulle scarpe e chi vi spiega che anche con scarpe normali, se non esagerate, non avrete mai problemi. In realtà, nessuno focalizza l’attenzione sulla psicologia del soggetto, non accorgendosi che almeno nella metà dei casi l’infortunio nasce da un approccio psicologico errato allo sport. Sarà sicuramente a tutti capitato di notare come un principiante che corre solo perché forzato da qualche chilo di troppo abbia una bassa motivazione e che scambi il primo fastidio per un dolore gravissimo che richiede uno stop immediato. Altri casi di infortuni psicologici sono quelli di chi spiega un “purtroppo non posso correre” con un alibi medico che nella stragrande maggioranza dei casi (vedi esempio sottoriportato del mal di schiena) o non impedisce realmente di correre o deve far considerare il soggetto alla stregua di un invalido.

Tralasciando i casi di non-runner, focalizziamo l’attenzione su chi è motivato alla corsa. In genere è facile trovare una personalità che facilita enormemente la comparsa di infortuni, soprattutto se esiste una maggior predisposizione individuale.

Gli immortali

L’immortale è colui che, sentendosi sano, ritiene di poter correre senza particolari attenzioni, sicuro che “gli infortuni capitino agli altri”.

L’immortale ignorante –  La sua convinzione è aggravata dalla mancanza di informazioni. Esempi classici sono il principiante che, giovane e baldanzoso, tenta nella sua prima uscita di emulare l’amico e correre per 10 km o il runner che è convinto che gli antinfiammatori possano curare efficacemente patologie croniche perché alleviano il dolore.

L’immortale fissato – Per fortuna le informazioni circolano ed è difficile trovare sportivi completamente a digiuno di nozioni di medicina sportiva. Purtroppo però le informazioni possono essere contraddittorie e variamente interpretabili. Una categoria di runner le utilizza distorcendole e adattandole al proprio scopo, quello cioè di essere immortali. Il termine fissato (la prima volta l’ho sentito in una discussione con Orlando Pizzolato e da allora l’ho sempre usato perché rende bene l’idea) indica un atleta per il quale la corsa è una vera e propria droga, non può farne a meno; potremmo dire che ne è dipendente. Le cause della sua dipendenza sono diverse; per esempio può ricavare dalla corsa una grande autostima, può non avere altro di soddisfacente nella vita, può sentirsi di nuovo giovane e forte, può socializzare grazie a essa ecc. In questa sede l’importante è capire che la sua psicologia rende l’infortunio simile a un lutto. Non sa accettarlo (in fondo, non era immortale?) e non sa elaborarlo. Ecco quindi che corre sul dolore o che cerca mille improbabili miracolose cure per non smettere di correre. Per lui un periodo di stop è come la morte di un amico caro e non riesce ad accettarlo.

infortunio e psicologia

L’immortale furbo – Chi è immune dalle prime due fasi (o le ha superate con l’esperienza), ma continua a ritenersi immortale, elabora una strategia in cui la prevenzione dovrebbe assicurargli una pratica sportiva senza infortuni. Nel furbo c’è l’elaborazione del lutto, ma è sbagliata perché vive sull’illusione che, facendo tutto per bene, l’infortunio non arriverà mai (anche certi addetti ai lavori involontariamente supportano questa convinzione, si veda il capitolo 13 dell’ottimo Lore of running di T. Noakes che si intitola Stay injury free).

Ci sono atleti che sono veramente convinti di poter gareggiare ogni domenica perché usano le scarpe giuste, i percorsi giusti, gli allenamenti giusti (fra parentesi, le gare fanno parte del programma di allenamento e gareggiare tutte le domeniche non è “fare gli allenamenti giusti”; non lo fanno i campioni, figurarsi gli amatori…), hanno un peso corporeo perfetto ecc. Se a loro si chiedesse se un’auto può essere immortale sicuramente risponderebbero di no e inizierebbero a citare i fattori che ne accorciano la vita. Ebbene, con l’auto del proprio corpo queste riflessioni non le fanno mai.

Vediamo come l’immortale furbo elabora il lutto dell’infortunio.

  1. Il runner ha un infortunio.
  2. Il suo umore si deprime perché non comprende che gli infortuni li hanno anche i campioni, ma che per lui, che campione non è, il danno non può essere cosmico.
  3. Pur essendo relativamente giovane, non comprende che, ai fini della salute, stare fermi il giusto periodo di tempo non cambia nulla. Teme per lo stato di forma o per l’appuntamento che rischia di saltare. Questo con la salute non c’entra nulla e fra l’altro indica una dipendenza dal suo oggetto d’amore che rischia di diventare una droga.
  4. Per uscire dal tunnel depressivo, si concede una speranza: “okay, ho sbagliato. Per essere immortali occorre diventare maniaci della prevenzione e fare tutto al meglio”.
  5. Entra in una spirale ipocondriaca con decine di paia di scarpe, radiografie, ecografie, TAC, risonanze, esami della postura, plantari, sedute di potenziamento infinite, stretching per diverse ore al giorno e chi più ne ha più ne metta, fino ad arrivare a viaggi periodici a Lourdes. Si noti che la prevenzione è molto saggia, ma solo se prima si sono accettati i propri limiti.
  6. Non vuole accettare il concetto che un infortunio può anche cronicizzarsi. Ognuno ha il proprio tallone d’Achille, ma l’immortale non vuole accettare questo discorso. Anziché accettare due o tre ricadute all’anno e imparare a gestirle al meglio, vuole negare la patologia, arrivando a lasciare lo sport perché “così non si può andare avanti” (due o tre stop di 15 gg. in un anno).

Gli errori fisiologici dell’immortale

L’immortale non ha la comprensione di alcuni fondamentali concetti di fisiologia sportiva:

  1. Distanza critica – In base alla propria genetica e al proprio passato sportivo, ognuno ha una distanza critica, superata la quale ogni seduta fa impennare le probabilità di infortunio. Per l’immortale la distanza critica è infinita o comunque inferiore alle sedute che “vuole e deve” svolgere per centrare un certo obiettivo. Per esempio, nonostante sappia benissimo che non è da tutti gareggiare abitualmente su mezze e maratone, la cosa non lo deve riguardare: è o non è immortale?
  2. Km settimanali – In base alla propria genetica e al proprio passato sportivo, esiste per ognuno di noi una relazione certa fra la media dei km percorsi settimanalmente e gli infortuni. Questo concetto è da tutti conosciuto e applicato per le auto. In base al modello (e quindi alla qualità), il motore di ogni auto ha un numero di km di percorrenza che ne fissa la vita media: se vogliamo farla durare x anni, è necessario distribuire tale numero negli x anni prefissati. Così se si vuole correre tutto l’anno senza problemi è necessario distribuire il chilometraggio del nostro motore in modo saggio. Se si carica troppo, dopo tre-quattro mesi si è fuori uso.
  3. Qualità – L’immortale non comprende che non è possibile gareggiare ogni domenica, allenarsi con sedute molto frequenti di ripetute, sentire sempre l’adrenalina nelle vene. Prima o poi il motore fonde.
  4. Percorsi – Nel cuore dell’immortale vive il mito di Rambo: perché rinunciare a percorsi mozzafiato (salite e discese ripidissime, campestri da far paura, maratone della Valle della Morte ecc.), tanto si è immortali!

La strategia giusta

Chi ha compreso i precedenti errori è in grado di apprezzare la giusta strategia:

  1. Determinare la propria distanza critica e il chilometraggio settimanale critico. Se tali valori sono inferiori a 10 km e a 40 km è il caso di indagarne i motivi con un medico sportivo perché non si può certo dire di essere “fisiologicamente sani”; anche se è possibile condurre una vita da sedentari, il problema che limita la pratica della corsa esploderà sicuramente con l’avanzare dell’età del soggetto: le case di riposo per anziani sono piene di persone di 70-80 anni ancora lucidissime di testa, ma con gravi problemi ortopedici; probabilmente queste persone a 40 anni dicevano all’amico “sai, non posso correre perché…”.
  2. Se non si sono commessi gli errori dell’immortale, in caso di infortunio fermarsi e valutarne la gravità con un periodo di stop sportivo. Esistono infortuni che rientrano da sé in pochi giorni, altri in un paio di settimane. Se l’infortunio è traumatico e impedisce la normale vita da sedentario (per esempio una brutta distorsione) ricorrere subito al terapeuta, altrimenti attendere per un periodo fino a tre settimane; trascorso il quale rivolgersi a un medico/ortopedico sportivo.
  3. A questo punto la risoluzione dell’infortunio passa attraverso quattro fasi: diagnosi, cura, comprensione delle cause, ripresa. Fondamentale la comprensione delle reali cause. Ancora oggi, senza evidenze scientifiche che supportino le affermazioni, molti medici danno come causa una caratteristica anatomica (piede piatto, piede cavo, dismetria degli arti, postura ecc.), senza comprendere che tale caratteristica è al più una condizione facilitante l’infortunio: il 90% della popolazione ha un gamba più lunga dell’altra, come il 70% ha i piedi cavi o i piedi piatti. Se si pensa che queste siano le cause degli infortuni di un atleta, come spiegare che moltissimi altri con lo stesso problema non si infortunano?

Un esempio concreto: runner con mal di schiena ricorrente

Primo intervento: capire, la patologia e applicare le stesse indicazioni per il sedentario.

Una volta stabilizzata la situazione, capire il grado di gravità del mal di schiena.

Se il soggetto non può correre, non è una buona cosa limitarsi a non correre perché vuol dire che la situazione è abbastanza grave e che fra 20 anni creerà problemi non indifferenti anche in condizione di sedentarietà. Quindi verificare la possibilità di risolvere chirurgicamente il problema.

Se la situazione è compatibile con la corsa, il runner deve mettersi nell’ottica di gestire le ricadute durante l’anno. Ciò significa evitarle il più possibile e saperle curare. Per il primo punto:

  1. conoscere la distanza critica. Chi ha un’ernia ha per esempio due possibilità: correre per un’ora tre volte alla settimana (in modo che ci sia sempre un giorno di scarico) o correre più volte per 40′. A seconda dei casi l’ora o i 40 minuti possono aumentare o diminuire. In ogni caso superare l’ora di corsa è sempre critico. Meglio andare più forte che correre a lungo (questo anche perché l’appoggio lento grava di più sulla schiena).
  2. Scegliere il terreno più adatto: lo sterrato duro. Da evitare lo sterrato molle (il richiamo della gamba sollecita troppo la schiena) o erboso (l’instabilità “muove” le protrusioni). L’asfalto è una via di mezzo.
  3. Il modo di correre deve essere naturale. Ogni forzatura rischia di innescare altri problemi. Sull’uso di un plantare che scarichi la schiena occorre prestare attenzione al fatto che, caricando in modo diverso il peso del corpo, ci si predispone a infortuni in altre zone.
  4. Il tipo di scarpe deve essere ammortizzante, cioè A3. Ovviamente la calzata è personale. Per esempio, le Mizuno sono scarpe secche, come le Asics, mentre Saucony o Nike sono morbide. Se l’atleta è elastico userà le prime, se non lo è, userà le seconde.
  5. Per riprendere, la strategia giusta è riprendere senza dolore e correre in modo da ritardare al massimo il prossimo stop. Quindi, quando si è allenati e in forma, ci si assicuri di non essere vicini al limite critico che fa scattare un nuovo stop.

Questo è quello che farebbe un wellrunner.

 

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