Il concetto di distanza critica è fondamentale nell’ambito del running, vediamo esattamente di cosa si tratta. Quando si avvicinano alla corsa, molti principianti sono sommersi da doloretti vari, spesso anche molto fastidiosi. Anche chi procede molto gradualmente non ne è immune e la situazione può essere veramente disincentivante. Per fortuna, con l’allenamento, i doloretti spariscono e dopo pochi mesi si può correre in tutta tranquillità. Tendini, muscoli e articolazioni si sono adattati al nuovo stile di vita. Questa situazione porta spesso molti runner a ritenere che questa adattabilità sia infinita. Chi ha giocato a calcio sa che non sono poi infrequenti i casi di fratture ossee in soggetti perfettamente sani. Se in alcune circostanze la durezza dell’intervento giustificava la frattura, altre volte si poteva pensare a una sfortunata combinazione di coincidenze come l’angolo di impatto e la fragilità ossea individuale senza che vi fosse nulla di patologico. Quest’ultima considerazione dà il via a questo articolo: come nel calcio (e in altri sport di contatto) la fragilità ossea individuale del soggetto comunque sano spiega una certa facilità alla frattura, così nella corsa non è possibile prescindere da una personalizzazione del carico allenante in funzione delle caratteristiche di tendini, articolazioni, muscoli ecc.
In termini più pratici, ogni runner ha un carico massimo gestibile senza infortuni. Tale carico non è né infinito (“tanto io non mi infortuno mai”), né universale (cioè valido per tutti), ma deve essere considerato una caratteristica dell’atleta, esattamente come la sua prestazione.
La pratica dimostra che esiste una distanza critica sulla singola seduta.
La distanza critica è quella distanza superata la quale aumenta nettamente la probabilità di infortunio,
è cioè una condizione che facilita l’infortunio. Il semplice buon senso ci dice che molti soggetti sani possono correre per 1 km al giorno, per quanto scriteriatamente lo facciano. Aumentando la distanza, la percentuale dei “sopravvissuti” diminuisce. Da notare che nel concetto di distanza critica è inclusa tutta la vita atletica del soggetto, compresi i suoi errori nell’allenamento. Va da sé che sarebbe riduttivo attribuire solo a essi una distanza critica modesta, dimenticando la genetica dell’atleta. Dai dati in mio possesso si trova che, per una data popolazione di runner, la distanza critica si distribuisce secondo una curva di tipo gaussiano. Vi esorto a capire il concetto di curva gaussiana rileggendo con calma l’articolo corrispondente. Solo così potrete capire perché
non è possibile praticare con soddisfazione la corsa prescindendo dalla propria distanza critica.
Se la popolazione di runner (allenati) è completamene generica, si trova che la gaussiana è centrata attorno a 24 km per gli uomini e a 20 km per le donne con una deviazione standard di 5 km circa. La curva ha sulle ascisse (asse x) i km corrispondenti alla distanza critica. Anziché i km sono indicate le deviazioni standard rispetto alla media (24 km per gli uomini e 20 per le donne corrispondenti allo 0 al centro dell’asse x), ogni σ corrisponde a 5 km. Sulle ordinate (asse y) è indicata la percentuale di runner che ha tale distanza critica (si noti per esempio che la distanza critica più probabile è associata a circa il 40% dei runner, indicato da 0,4). Se osservate la curva, pochissimi riescono a correre più di 44 km (4 deviazioni standard a destra) senza risentire alla lunga di problemi cronici. Normale, direte. D’accordo, ma ragioniamo sulla curva. Cosa scopriamo? Per gli uomini (discorso analogo per le donne):
- circa il 50% non riesce a correre più di 24 km senza problemi.
- C’è una percentuale di runner non trascurabile (quella compresa fra –4σ e –2σ) che non riesce a superare i 14 km senza avere problemi.
Questi dati indicano che se il soggetto insiste in distanze superiori a quella critica prima che i problemi (anche una semplice dolorabilità muscolare) siano rientrati, sarà un soggetto perennemente infortunato.
Purtroppo il genere di problemi collegato alla distanza critica è fisiologicamente riportabile a microtraumi difficilmente visibili con un esame; al più, spesso si vedono infiammazioni o versamenti che indicano semplicemente che la struttura è in superlavoro e cerca di reagire come può. Poiché queste situazioni anomale possono richiedere giorni o settimane per essere risolte, risulta evidente che la strategia per chi voglia comunque sfidare la sua distanza critica non può che essere quella di far rientrare il problema prima di correre nuovamente.
Se il problema rientra in 2-3 gg. (come accade per anni ad alcuni runner) è possibile avere comunque un buon allenamento, ma se il problema è di quelli che per rientrare richiedono una settimana o più, allora è decisamente consigliabile orientarsi a distanze più brevi oppure cercare di aumentare la propria distanza critica.
Distanza o tempo critico?
Da un punto di vista teorico sarebbe più corretto parlare di tempo critico, il tempo in cui le strutture vengono sollecitate in modo continuato. Si è però soliti parlare di distanza perché, dato un runner, distanza e tempo sono legati dalla sua prestazione. Se il tempo critico è un’ora, la distanza critica di un runner che a fondo lento va a 5’/km è di circa 12 km. Riferirsi ai km è più semplice perché la stragrande maggioranza dei programmi di allenamento si riferisce alla distanza da percorrere.
La distanza critica può cambiare?
La risposta è sì, ma a patto che qualcosa nel runner cambi. La curva descritta precedentemente è per una popolazione generica di runner dai 18 ai 60 anni. Se si considerassero popolazioni diverse, la forma della curva resterebbe, ma cambierebbero i suoi dati caratteristici. Per esempio, aumentando l’età, diminuisce anche se di poco la distanza critica; considerando solo soggetti ottimizzati dal punto di vista del peso, la distanza critica aumenta ecc.
Tralasciando i fattori sui quali non si può intervenire (età), i tre fattori che meglio agiscono sull’incremento della distanza critica sono:
- la riduzione del sovrappeso;
- l’aumento della flessibilità;
- l’aumento della resistenza muscolare (potenziamento).
Prima di aprire lo spiraglio a facili illusioni, occorre dire che solo il primo punto può essere quantitativamente significativo: una diminuzione di 10 kg di peso in un runner che inizialmente ne pesa 80 può incrementare la distanza critica anche di 10 km.
Gli altri due fattori sono sicuramente meno importanti, soprattutto se il runner è già ben allenato, ma sono comunque in grado di innalzare il proprio limite di qualche km.

Ogni runner deve essere cosciente che non è possibile praticare con soddisfazione la corsa prescindendo dalla propria distanza critica
Distanza critica del periodo
La distanza critica della seduta è spiegata con le carenze strutturali del soggetto. Esiste però anche una distanza critica sul periodo (di solito si parla di settimana, anche se non è proprio corretto perché per esempio un conto è fare 5 uscite settimanali di 14 km oppure due uscite di 35 km in due giorni consecutivi!) che dipende dalle capacità di recupero del soggetto, cioè dalla sua capacità di recuperare i microtraumi che la corsa genera. Se la capacità di recupero fosse istantanea, non avrebbe ovviamente senso parlare di distanza critica sul periodo. Realisticamente non lo è, per cui è possibile che, se si supera un certo carico settimanale (soprattutto se è maldistribuito!), si abbiano problemi. Facciamo un esempio: se la mia distanza critica è di 20 km, posso pensare di fare due uscite nel week-end di 18 km. Peccato che quando inizio la seconda non ho ancora recuperato del tutto i microtraumi della prima, per cui è come se io partissi con una struttura logora di 5-6 km e, sommando i 18 della seconda seduta, supero la mia distanza critica di seduta e avrò dei problemi.
Il consiglio è di capire quanto velocemente si recupera, di non fare troppe sedute vicine alla distanza critica (perché potrei non avere ancora recuperato bene), distribuire uniformemente l’allenamento e soprattutto recuperare benissimo le uscite vicine alla distanza critica.
Distanza critica ed età
Abbiamo detto che, aumentando l’età, la distanza critica diminuisce di poco. Questo a meno che non intervengano problemi “irreversibili” alle articolazioni e all’apparato scheletrico (per esempio, schiena). Il termine “irreversibili” è virgolettato perché spesso il runner con scarsa coscienza medica abbandona la corsa prima di indagare i problemi; per esempio, problemi alla cartilagine del ginocchio in molti casi possono essere tenuti sotto controllo per anni con sedute di infiltrazioni di acido ialuronico. Cosa con l’età può far diminuire “drasticamente” la distanza critica? Soprattutto per i runner agonisti i fattori sono due:
- il sovrappeso
- la riduzione delle prestazioni.
Supponiamo che un runner amatore nel suo periodo di massima prestazione (40 anni) corresse a 4’/km con una distanza critica di 15 km. 20 anni dopo, diminuito di molto la sua carica agonistica (per esempio si allena tre volte anziché sei, per il semplice piacere di stare in forma) corre a 5’30″/km e ha messo sui 6 kg passando da 60 a 66 kg. Se prima percorreva 15 km in un’ora (il suo tempo critico), ora in un’ora percorre circa 11 km, quindi la sua distanza critica si è notevolmente ridotta; se poi si considera che ha perso un 10% per l’aumento di peso (più si pesa e più le strutture vengono sollecitate) ecco che la sua distanza critica è inferiore a 10 km. Probabilmente, se poi si aggiungesse il deperimento dovuto all’incremento di età biologica, si arriverebbe a 8 km!
La corsa è uno sport per tutti?
Circa il 30% di chi inizia lamenta infortuni di vario tipo durante la fase di avvicinamento, per esempio durante le prime dieci lezioni del Metodo Albanesi che portano a superare il test del moribondo. Sono i fastidi del principiante che si risolvono con una progressione più graduale dello sforzo, per esempio correndo 3 volte alla settimana anziché 5 o 6. La percentuale di chi non arriva ai fatidici 10 km in un’ora è inferiore al 6-7%. Quasi sempre si verifica che il soggetto non è ortopedicamente sano e la corsa ha messo in risalto un problema che sarebbe comunque uscito con l’età. Di questi 6-7 casi solo 1 o 2 non sono trattabili. Gli altri lo sono in modo banale, chirurgicamente. Il fatto che una persona non se la senta di affrontare un’operazione per fare sport è equivalente a una persona che decide di rimanere con un deficit uditivo perché non vuole portare gli apparecchi acustici.
Superato il moribondo, possono cominciare i problemi. Le persone entrano nella spirale della prestazione o comunque di una dimensione fortemente salutistica della corsa: se Tizio riesce a correre la maratona perché io non riesco a farlo? Se Caio corre per 60 km alla settimana perché io non ci devo riuscire? Ecc.
Molti fisiologi dello sport hanno parlato di distanza critica relativamente a grandi interpreti del mezzofondo che per vari problemi non sono mai riusciti ad allenarsi e a correre decentemente una maratona. Io ho solo esteso il concetto di distanza critica anche al comune mortale e a distanze inferiori ai 42 km.
Morale: il 99% delle persone “sane” può essere in grado di correre 10 km in un’ora, ma è utopistico sperare che una percentuale molto elevata riesca a correre per 70-80 km alla settimana, magari a buoni (per sé) ritmi. Probabilmente non più del 50% delle persone ci riesce. Occorre però considerare che siamo ben oltre la soglia salutistica, cui tutti possono arrivare. Per questo occorre essere molto critici con runner navigati che vorrebbero indurre i principianti a seguire banalmente il loro esempio e correre in pochi mesi la maratona.
Da cosa dipende questo fenomeno? Penso dipenda dall’irreversibilità della sedentarietà. Quando una persona è sedentaria per tanti anni, riesce a invertire la rotta, ma fino a un certo punto (che comunque, ripeto, è sufficiente per un discorso salutistico): pensiamo a un Giacomo Leopardi che scopra il sito di Albanesi e decida di mettersi a correre dopo “sette anni di studio matto e disperatissimo”. Probabilmente il massimo che possiamo pretendere da lui è proprio il superamento del test del moribondo.