L’autoemotrasfusione è una pratica dopante tornata alla ribalta negli ultimi anni (era molto diffusa negli anni ’80 del secolo scorso; poi, con l’avvento dell’EPO – l’eritropoieina -, la sua “stella” cominciò ad offuscarsi). Prima di entrare nel vivo dell’argomento, però, è opportuna una breve premessa di carattere tecnico. Con il termine emotrasfusione si indica la trasfusione di sangue da un soggetto detto donatore a un altro soggetto detto ricevente; se i soggetti sono due persone diverse si parla di emotrasfusione eterologa; se invece donatore e ricevente coincidono si parla di emotrasfusione autologa (anche autoemotrasfusione o più semplicemente autotrasfusione). In campo medico, com’è certamente noto a tutti, l’emotrasfusione è una pratica utilizzata per reintegrare il sangue che è andato perso a causa di emorragie di una certa importanza dovute a interventi chirurgici oppure provocate da condizioni, patologie o traumi di vario genere (trapianti di organo, ustioni, parto, neoplasie, emofilia ecc.). L’emotrasfusione ha quindi in questi casi un’importanza fondamentale nella cura e nella gestione di svariati problemi di ordine patologico e traumatico.
Autoemotrasfusione in ambito sportivo
L’emotrasfusione ha tutt’altri scopi quando se ne parla in ambito prettamente sportivo, ambito nel quale viene generalmente utilizzata, appunto, la tecnica dell’autoemotrasfusione.
L’autoemotrasfusione non è consentita in ambito sportivo in quanto è considerata a tutti gli effetti una pratica dopante e, come tale, è pesantemente sanzionata dagli organi preposti alla repressione delle pratiche di doping.
L’autoemotrasfusione è una delle tipologie del cosiddetto doping ematico (anche emodoping o blood doping, doping del sangue), tipologie nelle quali rientra la somministrazione della ormai celeberrima eritropoietina (EPO).
La pratica dell’autoemotrasfusione non è recentissima, risale infatti alla fine degli anni ’60 del secolo scorso; se ne iniziò però a parlare con una certa insistenza dopo le vittorie olimpiche del atleta finlandese Lasse Viren, trionfatore ai giochi olimpici di Montreal in Canada nelle specialità dei 5.000 e dei 10000 m (Viren tra l’altro prese parte anche alla maratona, ma si classificò “soltanto” quinto con il tempo di 2h13’10”); il campione finlandese, allora ventisettenne, fu pesantemente sospettato di aver fatto ricorso al doping ematico, ma in quel periodo la questione doping era più focalizzata sul ricorso agli steroidi anabolizzanti e, viste sia la scarsa conoscenza in materia di emodoping (tra l’altro allora non sanzionato dal CIO, il Comitato Olimpico Internazionale) sia la mancanza di prove a carico dell’atleta, il problema emotrasfusione non fu ritenuto né particolarmente importante né meritevole di ulteriori approfondimenti.
Le cose cambiarono dopo le Olimpiadi svoltesi nel 1980; dopo la fine di quei Giochi Olimpici, infatti, il mezzofondista finlandese Kaarlo Hannes Maaninka (vincitore per la cronaca della medaglia d’argento nei 10.000 m e di quella di bronzo nei 5.000) ammise di aver fatto ricorso all’emotrasfusione; anche alcuni membri del team ciclistico degli Stati Uniti avevano fatto ricorso a tale pratica, pratica alla quale ricorse anche il ciclista italiano Francesco Moser che a Città del Messico ritoccò per due volte il record dell’ora indoor. Nel 1984 finalmente il il Comitato Olimpico Internazionale ne proibì l’utilizzo.
Per diverso tempo l’autoemotrasfusione fu pratica abbastanza diffusa in ambito sportivo; poi, con l’avvento dell’eritropoietina, il ricorso a tale pratica si ridusse in modo drastico.
Negli ultimi anni, come accennato in apertura di articolo, si è assistito a un ritorno alla tecnica dell’autoemotrasfusione, specialmente da quando sono stati introdotti test antidoping sempre più efficaci nel rivelare l’utilizzo di EPO.
Come si pratica l’autoemotrasfusione
Tecnicamente si agisce come spiegato di segutio. Circa 30-40 giorni prima del momento in cui si dovrà essere al top della preparazione, si procede con il prelievo di circa 700-900 ml di sangue dal soggetto che sarà impegnato in gara. Il sangue, congelato e debitamente conservato, sarà poi messo nuovamente in circolo 24-48 ore prima dell’impegno agonistico.
I presupposti fisiologici sui quali si basa la tecnica dopante dell’autoemotrasfusione sono sostanzialmente quelli della somministrazione di eritropoietina; generalmente si ha un miglioramento in termini di capacità aerobica con conseguenti miglioramenti nelle prestazioni di endurance. Dai diversi studi effettuati si ritiene che con l’autoemotrasfusione si abbiano inoltre benefici in termini di tolleranza al calore, riduzione della concentrazione ematica di lattato con conseguenti benefici in termini di tolleranza allo sforzo. Per tali motivi tale pratica è stata adottata da atleti impegnati in discipline di resistenza (ciclismo, maratona, sci di fondo, nuoto ecc.); non si registrano invece particolari benefici in discipline in cui la componente fondamentale è quella anaerobica (per esempio, i 100 o i 200 metri piani).
L’autoemotrasfusione ha indubbi vantaggi dal punto di vista “doping”; non esistono infatti tecniche in grado smascherarla e, per quanto si ritenga che la sua efficacia sia minore rispetto a quella garantita dall’eritropoietina, è proprio il fatto che è praticamente impossibile da individuare a far sì che essa sia ritornata in voga.
Diverso è invece il caso di doping ematico effettuato con la tecnica eterologa dal momento che esiste la possibilità, attraverso determinate analisi, di distinguere proteine diverse a livello di superficie.
Una pratica non esente da rischi
Va sempre ricordato che il ricorso all’autoemotrasfusione non è scevro da pesanti effetti collaterali; non sono infatti da sottovalutare i rischi derivanti da possibili formazioni di coaguli sanguigni in seguito alla reinoculazione del sangue con tutte le conseguenze che essi possono portarsi appresso (embolia, ictus, infarto ecc.); si deve inoltre tenere conto che in seguito alla reintroduzione del sangue precedentemente prelevato si osserva un notevole aumento della sideremia che potrebbe essere causa di problemi a carico di fegato, milza, pancreas e reni.