Per definire con esattezza cosa si intende con “soglia di sofferenza patologica” sono necessarie alcune premesse. Accade sempre più spesso che molti amatori facciano della corsa una ragione di vita. Nello spirito del wellrunning ciò è profondamente sbagliato. La corsa deve avere soprattutto scopi salutistici perché è impensabile che si possa legare il proprio equilibrio ai risultati che si possono ottenere. Sicuramente alla base di questa supervalutazione della corsa possono esistere problematiche esistenziali (desiderio di affermazione, solitudine, ricerca di visibilità ecc.), ma spesso è una molla più intima che porta il soggetto a “vivere in funzione della corsa”. L’atleta si sente vivo solo se soffre o, con un’affermazione abbastanza comune fra runner partiti per la tangente, solo “se si fa del male”. Come è possibile distinguere una corretta gestione della fatica da un abnorme abuso dello spirito di sofferenza?
La soglia di sofferenza non è un parametro oggettivabile in quanto ognuno di noi parte da un punto diverso; come per le caratteristiche atletiche il campione parte decisamente avvantaggiato rispetto al comune mortale, così alcuni soggetti possono avere una capacità di sofferenza decisamente maggiore di altri. Poi tale capacità può essere, entro certi limiti, allenata. Queste ultime righe sembrerebbero rendere molto difficile individuare l’atleta amatore “drogato” di corsa per il quale la sofferenza diventa il giudice etico del suo allenamento. In realtà, è necessario fare un passo indietro e allargare l’orizzonte alla vita del soggetto (una mancanza spesso tipica di chi allena gli amatori!). Il punto fondamentale è che:
ognuno di noi decide di spendere determinate risorse per praticare la sua attività sportiva.

È contrario a ogni logica “tirare” sempre in tutti gli allenamenti
Per esempio, molti runner non si metterebbero mai a dieta per perdere i dieci chili di sovrappeso perché sono convinti che ciò frustrerebbe la loro vita. Altri sarebbero pronti a prendere di tutto pur di migliorare di 1″/km. Analogamente, ognuno di noi, a prescindere da altri fattori, decide a priori, un certo grado di sofferenza da legare alla pratica sportiva. Ciò non dipende dallo sport praticato e “sofferenza” va inteso in senso lato. Per esempio, anni fa al lunedì ero solito giocare a basket con un gruppo di amici; si iniziava in 12-14 e dopo due ore si finiva in 6-8. Quelli che se ne andavano prima avevano una soglia di fatica inferiore, soglia che non dipendeva da uno stato reale di fatica (alcuni erano anche molto dotati, atleticamente parlando), ma solo dal fatto che si erano “stancati di giocare”.
Nella corsa la fissazione della propria soglia massima di sofferenza identifica spesso il tipo di corridore, dal sedentario che inizia per dimagrire, al jogger, al runner ecc. In ogni caso è un limitatore del grado di allenabilità del soggetto. In quest’ottica appare ottimistico estendere a tutti tecniche di allenamento mentale destinate a chi ha soglie di sofferenza altissime. Se ho già scelto di non superare una determinata soglia di sofferenza, un allenamento impostato proprio sul concetto di fatica darebbe risultati nulli, proprio come tentare di far dimagrire un runner che non vuole mettersi a dieta.
Poiché la soglia di sofferenza è individuale ed è fissata generalmente al di fuori della corsa, come individuare i comportamenti patologici usando la tale soglia? È per esempio del tutto evidente che se voglio correre un 3000 m e battere il mio primato personale di 10″, a prescindere dall’ottimo allenamento che ho svolto, probabilmente in gara dovrò soffrire molto perché mi sto confrontando con i miei limiti. È questo il caso di una sofferenza “massima” non ha nulla di patologico, psicologicamente parlando. Comportamenti sospetti sono invece:
- Non avere mai pause nei propri allenamenti. È contrario a ogni logica “tirare” sempre. Chi non sa andare piano, ha una visione troppo etica della sofferenza che “deve essere presente” in ogni prova. Molti runner preferiscono allenarsi tre sole volte alla settimana e fare praticamente tre gare piuttosto che allenarsi quattro o cinque volte e prendersi delle pause.
- Crollare psichicamente al primo infortunio che viene vissuto come un lutto (ho perso la corsa!), cercando di far convivere corsa e infortunio (“soffro, ma non mollo”; “la parola ritiro non è nel mio vocabolario”).
- Cercare gare e allenamenti che esaltino lo spirito di sofferenza. Gare con percorsi terribili alla Indiana Jones oppure allenamenti alla Rocky non sono giustificati da nessuna teoria dell’allenamento.
Se avere una bassa soglia di sofferenza non consente di ottenere grandi risultati, ma è compatibile con una visione salutistica della vita, avere una soglia di sofferenza distorta sicuramente accorcia la vita atletica in modo impressionante.