Il recupero è un argomento che è giocoforza trattare quando si parla di corsa. Innanzitutto proviamo a darne una definizione: il recupero è il tempo necessario per riparare i “danni” causati dalla corsa. Molti runner si lamentano di avere grosse difficoltà a recuperare allenamenti anche non massimali, dovendo pertanto limitare le uscite settimanali a non più di tre o quattro. L’utilizzo di integratori è solo un tentativo il più delle volte infruttuoso che conferma lo scarso peso che essi hanno nel recupero di sportivi non professionisti; infatti c’è una differenza abissale fra il professionista e l’amatore perché nel secondo la normale alimentazione deve essere sufficiente per un pieno recupero. Se non lo è, si è di fronte a qualche anomalia della gestione del proprio organismo.
Indice
- Gara e recupero
- Recupero e processi fisiologici
- Le cause di un cattivo recupero
- La capacità di recupero: come migliorarla
- Il recupero a 120 battiti
- Recupero in souplesse: i limiti
- Recupero affaticante

Molti runner si lamentano di avere grosse difficoltà a recuperare allenamenti anche non massimali
Gara e recupero
Per dare un ordine di grandezza numerico su cui basare la trattazione del recupero individuale, occorre subito dire che, a mio avviso, vale la seguente regola per un atleta ben allenato e che ha corso bene (cioè non in evidente calo nella parte finale):
una gara si recupera in km/2 giorni.
Ovviamente per gara si intende anche un allenamento di qualità tirato al 100%. Nel caso di ripetute “tirate” al massimo, quello che conta è la velocità: se per esempio si corrono 10×1000 m con recupero 1′-1’30”, la velocità è circa quella dei 5000 m, quindi il recupero è circa di 2,5 giorni.
La regola ci dice che non è consigliabile correre una mezza maratona tirata alla settimana, così come il tempo fra due maratone dovrebbe essere almeno di 21 giorni. Va da sé che la regola vale per chi è veramente ben allenato e che per chi corre, per esempio, 2-3 volte alla settimana i tempi di recupero sono sicuramente maggiori.
Recupero e processi fisiologici
Solo capendo esattamente i processi fisiologici che sono alla base del recupero dell’atleta si può ottimizzare il proprio recupero. Come vedremo, sono diverse le circostanze che creano difficoltà nel recuperare.
Cause principali – Sono presenti in ogni sforzo sportivo degno di nota.
1) Esaurimento delle scorte di glicogeno. Nell’organismo sono presenti circa 380-480 g di carboidrati, quasi tutti sotto forma di glicogeno: 350 g nei muscoli e 100 g nel fegato. Solo il 5% è rappresentato da glucosio circolante nel sangue. Quando non si hanno più a disposizione carboidrati non si riescono a bruciare nemmeno i grassi e l’organismo va in tilt. Caso tipico è il crollo del maratoneta al trentesimo chilometro (per approfondimenti su questo punto si legga l’esauriente articolo Muro del trentesimo chilometro).
2) Microtraumi fisiologici – Quando cresce l’intensità dello sforzo, la produzione di energia necessaria per onorare la richiesta produce una quantità di scorie e di alterazioni che devono in qualche modo essere eliminate e riparate. Per esempio, l’attività sportiva aumenta i livelli dei radicali liberi di un fattore che a seconda dello sforzo può andare da 6 a 30 volte. I radicali liberi ostacolano il normale metabolismo, impedendo il ripristino delle condizioni ottimali. L’allenamento consente di accorciare i tempi di recupero e una delle finalità del proprio programma di allenamento deve essere anche quella di consentire di allenare a recuperare sempre meglio.
3) Catabolismo proteico – L’anabolismo proteico tende a ricostruire la parte muscolare che è stata spesa con lo sforzo; se l’apporto proteico della dieta è adeguato in genere non c’è nessun problema a recuperare entro l’allenamento successivo. Contrariamente alla credenza comune, solo sforzi molto prolungati producono un significativo catabolismo muscolare (non certo quindi l’allenamento con i pesi) perché i muscoli vengono “smontati” per essere usati a fini energetici (per approfondimenti su quest’ultimo punto si consulti l’articolo Quando si bruciano i muscoli).
Cause secondarie – Sono cause che riguardano un numero limitato di atleti, ma sono abbastanza frequenti negli amatori.
4) Eccessiva dipendenza dal glucosio circolante – Esistono atleti che riescono a lavorare con dosi di glucosio molto basse (la glicemia è cioè attorno agli 80, normale, ma bassa), invece altri, che normalmente l’hanno alta, quando si abbassa molto vanno in tilt. Ovviamente la prima condizione è preferibile, ma spesso perché si consolidi occorre che l’atleta modifichi le sue abitudini alimentari, diminuendo la quantità di carboidrati normalmente assunti con la dieta (non superiore al 60%).
5) Carenza di magnesio – Mentre sodio e potassio negli individui sono sempre normali ed è inutile monitorarli (se variano di molto ci sono problemi evidenti nel soggetto), carenze di calcio e magnesio possono creare problemi in ambito solo sportivo. La carenza di magnesio, in particolare, è correlabile con sensazioni oggettive di stanchezza; è importante che il runner assuma questo metallo non a caso, ma soltanto dopo averne verificato la carenza. A differenza del calcio, il magnesio non è depauperato in maniera diretta dalla corsa e non sarebbe corretto assumerlo comunque a scopo preventivo, come certe pubblicità invitano a fare.
6) Carenza di ferro – Una carenza di ferro può produrre un’anemia sideropenica con conseguente stanchezza. Anche in questo caso, nella maggioranza dei casi si commette il grave errore di assumere ferro senza averne prima verificato la carenza (cosa che può condurre a emocromatosi, una grave patologia che danneggia il fegato). Prima di parlare affrettatamente di anemia sportiva (in genere nei runner o nei marciatori, non nei ciclisti o altri sportivi) è necessario che sia fatta una diagnosi certa di anemia da sport.
NOTA IMPORTANTE – È fondamentale ricordare che
il recupero non dipende dallo smaltimento dell’acido lattico.
Infatti anche senza accorgimenti particolari, alte dosi di acido lattico nel sangue si smaltiscono in poche ore. La prova più evidente è che un ottocentista (che arriva al termine della prova con notevoli concentrazioni di lattato) può gareggiare il giorno seguente con pari prestazione, mentre un maratoneta (che arriva al termine con concentrazioni di lattato molto basse) no!
Le cause di un cattivo recupero
Cerchiamo di analizzare le cause di un recupero non ottimale.
Innanzitutto è necessario verificare se l’atleta non presenta già sintomi di stanchezza a riposo, nella normale vita da sedentario. La stanchezza è un sintomo molto comune nella popolazione, non è detto che sia facile sconfiggerla perché spesso non se ne conoscono bene le cause. Si faccia riferimento all’articolo che suggerisce come sconfiggere la stanchezza.
Se invece il soggetto a riposo non presenta sintomi di stanchezza, è ovvio che si debba indagare su come fa sport. Gli errori sono diversi e ognuno potrà ricercare il suo caso personale.
A) Allenamenti troppo ravvicinati – È in relazione al punto 1 (vedasi paragrafo precedente). Se gli allenamenti sono troppo ravvicinati (o se ci si è alimentati poco e male, come chi abbina l’allenamento a una dieta dimagrante) e non si ricostituiscono le scorte di glicogeno, il recupero sarà avvertito come pessimo. Occorre notare che la velocità di ripristino del glicogeno in condizioni ottimali è di circa il 5% all’ora. Nella corsa è opportuno che il ripristino avvenga con la normale alimentazione e non (similmente a quanto accade in altri sport come, per esempio, il ciclismo) con integratori glicidici. È errato assumere carboidrati dopo lo sforzo di un normale allenamento di media lunghezza (inferiore ai 20 km) e poi alimentarsi normalmente. Si crea solo un surplus di calorie in quanto gli integratori glicidici sono poco sazianti. Meglio è ripristinare i carboidrati con un bonus calorico nel pasto che segue l’allenamento. Solo runner professionisti che effettuano allenamenti bigiornalieri o ciclisti con uscite superiori alle due-tre ore dovrebbero utilizzare integratori glicidici.
B) Allenamenti intensi troppo frequenti – È in relazione al punto 2. Non è possibile allenarsi con ogni seduta “tirata” al massimo. Genericamente durante una settimana solo una o due sedute possono essere massimali, nelle altre l’impegno può andare dal 50 al 90% delle proprie possibilità. Infatti quanto più ci si avvicina al 100% del proprio potenziale quanto maggiori sono i microtraumi fisiologici e il tempo di recupero si allunga.
C) Sovrappeso – Tipico di chi pensa di avere una costituzione robusta o di chi vuol fare comunque molta attività sportiva in sovrappeso. Provate a fare qualche piano di scale con 3 kg di pesi per braccio. La fatica sarà evidente. Pochi chili di sovrappeso sovraccaricano il corpo durante tutta l’attività fisica e per il resto della giornata. Un indice di massa corporea (IMC) superiore a 22 è sicuramente penalizzante perché fa spendere più energie e aumenta i microtraumi fisiologici. Purtroppo molti atleti si superalimentano nell’errata credenza di evitare il catabolismo proteico (punto 3) o di avere energie infinite (non è possibile stoccare una quantità a piacere di glicogeno, i carboidrati assunti in più si trasformano in grasso) per ovviare a quanto riportato nel punto 1.
D) Ragioni psicologiche – Nel sito diamo un’importanza fondamentale alla psicologia del soggetto, non solo per la corsa, ma per la vita in generale. La mente va allenata. Due considerazioni importanti:
- molti atleti corrono solo in condizioni ottimali, ritengono assurdo sentirsi stanchi, vorrebbero sempre sentirsi al top. In tal modo non alleneranno mai il recupero perché correranno sempre da riposati. Se si pensa che un maratoneta, anche amatore, nella preparazione della maratona, può correre al mattino 21 km e al pomeriggio altri 21, non è logico credere che nel pomeriggio sia fresco e riposato come una rosa. Correrà da stanco, ma partirà lo stesso. Ovviamente non bisogna esagerare, ma correre da stanchi nei giorni dopo un impegno (per noi) qualitativamente elevato è normale; basta andare più piano del solito, fare un lento, tranquilli, sicuri che è comunque utile.
- Altri atleti hanno cali di motivazione incredibili; è ovvio che se manca la motivazione (come spesso accade in chi fa sport controvoglia, solo perché gli hanno detto che “così si dimagrisce”) la soglia di fatica si abbassa enormemente.
E) Età – È vero che con l’età il recupero diminuisce, ma il motivo è semplicemente che con l’età i meccanismi di protezione vengono meno. In particolare la produzione e l’assorbimento di molti antiossidanti (come il coenzima Q10) si riducono, rendendo più esposto il fisico al problema 2 (microtraumi). Se il carico allenante è significativo si può pensare a una corretta integrazione per risolvere il problema.

La capacità di recupero è un concetto fondamentale per chi vuole allenarsi bene. Ma come si incrementa la propria capacità di recuperare?
La capacità di recupero: come migliorarla
A questo punto, dopo aver analizzato i fattori che determinano il recupero fisico ed esposto gli errori che non si devono commettere, è necessario chiedersi se esistono o no strategie che permettano di migliorare le proprie doti di recupero.
Iniziamo col dire che un atleta non dovrebbe essere valutato monodimensionalmente, in base alla sola prestazione. Questa visione, infatti, è eccessivamente statica e non consente di prevedere l’evoluzione del runner. È abbastanza logico inserire in una visione multidimensionale parametri come:
- il rapporto peso/altezza
- l’allenamento svolto per arrivare alla prestazione considerata
- la tenuta della “carrozzeria”, cioè la presenza e/o la predisposizione di infortuni
- i dati clinici, in particolare quelli ematologici.
Molto gettonati, ma scientificamente di minore importanza, l’età del soggetto e la sua storia atletica.
Sicuramente un parametro molto sottostimato è la capacità di recupero dell’atleta. È incredibile come si dia per scontato che le capacità di recupero del soggetto siano più o meno le stesse per tutti gli individui.
1) Ogni atleta ha una massima capacità di recupero. È un concetto banale, ma la capacità di recupero non può essere ampliata all’infinito. Da ciò discende una considerazione abbastanza scontata: non tutti possono correre la maratona in maniera “indolore”. Infatti, potrebbe benissimo accadere che la capacità di recupero del singolo non sia sufficiente per consentire un allenamento serio per affrontare la distanza.
2) La capacità di recupero deve essere allenata. Un concetto che dovrebbe essere abbastanza chiaro, visto che si tratta di una caratteristica fisiologica. In altri termini, il nostro corpo deve essere allenato a riparare sempre più in fretta i danni causati dalla corsa. Purtroppo molti runner che si allenano 3 o al massimo 4 volte alla settimana lo fanno perché preferiscono correre sempre da riposati. In tal modo non riescono a migliorare le loro capacità di recupero e restano molto lontani dalla loro reale potenzialità. Per esempio, correre un fondo lento da stanchi a ritmi blandi aiuta comunque ad allenare le capacità di recupero.
Recupero e sovrallenamento – Troppo spesso una scarsa capacità di recupero porta a concludere affrettatamente che il runner è sovrallenato. In realtà il sovrallenamento è un fenomeno clinico molto chiaro, mentre la fatica da mancato recupero è un fenomeno decisamente transitorio e non preoccupante: bastano pochi giorni di riposo perché tutto torni normale. Ovviamente se il runner non ha presente questa situazione e continua a correre in maniera qualitativamente o quantitativamente superiore a quanto gli permetta la sua capacità di recupero correrà sempre da stanco e sembrerà sovrallenato: dolori muscolari, stanchezza, prestazioni mediocri ecc.
Come si allena il recupero? – È ovvio che un atleta in piena attività che si allena bene da mesi ha una capacità di recupero ormai consolidata. I principianti, o gli atleti che rientrano dopo un infortunio, hanno spesso una capacità di recupero decisamente scadente ed è quindi il caso di migliorarla. Sperare che migliori da sé con l’allenamento non è la strategia migliore. Infatti, ciò porta ad allungare decisamente i tempi di andata a regime perché si tende semplicemente a usare il riposo come mezzo di riparazione. La capacità di recupero andrebbe invece allenata con un piano scientifico inserito nel più generale programma di allenamento. Alla base di tale piano devono esserci le risposte alle cause che limitano il recupero:
- Numero di sedute settimanali commisurato alle proprie capacità. Se con 5 sedute il recupero è pessimo, si inizi con 3, poi si passi a 4 ecc.
- Limitazione delle sedute di qualità. Non dare ogni volta il massimo, ma inserire la o le due sedute di qualità in un programma che preveda anche allenamenti di mantenimento.
- Limitazione del sovrappeso e corretta gestione dell’alimentazione. Ogni sportivo dovrebbe sapere cosa e quanto mangiare.
- Allenamento della mente. Ovviamente le capacità di recupero del runner sono anche legate alla psicologia del soggetto. Chi in allenamento è solito risparmiarsi molto avrà apparenti ottime capacità di recupero, salvo poi avere periodi difficili le uniche volte che si impegnerà al massimo. Viceversa chi ha una grande determinazione potrà palesare grandi doti di recupero, salvo poi crollare quando il cumulo di fatica diventerà insostenibile. Nel valutare il recupero occorre pertanto non barare, né in un verso né nell’altro. Allenamenti mirati al recupero sono quelli che, salvaguardando i limiti di qualità e di intensità, vengono svolti in condizioni di mancato recupero. Facciamo un esempio. Un runner si allena tre volte alla settimana, facendo un fondo lento di 10 km, un fondo progressivo di 12 km e una serie di ripetute sui 1000 m. A prescindere dal fatto che l’allenamento sia o no ottimale, per allenare il recupero dovrà inserire una seduta di fondo lento di massimo 12 km il giorno dopo le ripetute. Inizialmente gli sembrerà tutto molto faticoso, poi, man mano che la sua capacità di recupero aumenterà, diverrà tutto normale.
- Integratori. Come detto, servono a poco e solo in determinate circostanze. Il glicogeno si ripristina utilizzando carboidrati (meglio ad alto indice glicemico per velocizzare il processo: pasta e cereali, pane, miele, marmellata ecc.), senza ricorrere a prodotti ad hoc che, a parità di costo, forniscono troppe poche calorie e costringono comunque a ricorrere alla normale alimentazione per ritornare in condizioni di equilibrio. Solo chi esegue il bigiornaliero (per non sovraccaricare troppo la digestione) può ricorrere a barrette glicidiche. Da condannare decisamente l’abuso di integratori salini che, contrariamente alla credenza comune, sono di utilità minima nel recupero. I casi in cui l’integrazione è indicata sono indicati nelle schede antietà.
Quanto tempo? – Per il principiante non è possibile definire un tempo cui si arriva certamente alla massima capacità di recupero del soggetto. A seconda delle strategie di allenamento ci si può arrivare dopo sei mesi o dopo due o tre anni; è per questo che per il principiante l’indicazione del tempo dopo il quale si può correre una maratona è del tutto soggettiva. Per chi riprende da una sosta piuttosto lunga (almeno 60 giorni) la massima capacità di recupero si ripristina in 30-90 giorni.
Il recupero è sicuramente favorito da una corretta gestione del dopo-sforzo.
Microtraumi: azione successiva – Esistono molti metodi per cercare di lenire la fatica e recuperare prima. Alcuni (defaticamento) non sono del tutto corretti; altri sono parziali (elettrostimolazione: chi ha il tempo di defaticare con l’elettrostimolazione tutti i muscoli coinvolti nella corsa?); altri sono professionali, come il massaggio, la cui efficacia è proporzionale all’abilità di chi lo esegue (e, se fatto male, può addirittura peggiorare le cose). Si stanno diffondendo altri mezzi sicuramente molto efficaci e di semplice gestione: l’idromassaggio e l’uso di oli essenziali. Il principio praticamente è lo stesso: stimolare la circolazione sottocutanea e con essa velocizzare il processo di ripristino. A prescindere dall’indubbio piacere psicologico di un idromassaggio o di un bagno con oli essenziali (di tipo sportivo, non estetico!) o con soluzioni saline ad hoc, i risultati sono eccellenti, paragonabili a quelli di un buon massaggio.
Il recupero a 120 battiti
La necessità di un paragrafo dedicato al recupero a 120 battiti è dovuta al fatto che la difficoltà maggiore che molti atleti trovano nello svolgere le prove ripetute è di non riuscire a collegare in modo proficuo “tempo della ripetuta” e “recupero“.
Le tabelle di allenamento sono ovviamente medie sulla popolazione di atleti per cui una prova del tipo 6 x1000 m a 4’/km con recupero di 2′ può risultare del tutto infattibile o troppo facile per atleti che comunque “valgono” lo standard qualitativo espresso dal tipo di allenamento.
Alcuni (i resistenti) avranno difficoltà sul ritmo riuscendo a correre con il recupero prefissato a 4’05” e finendo tutto sommato freschi.
Altri (i veloci) avranno difficoltà nel recupero, correndo le prime ripetute anche a 3’50”, ma finendo sulle ginocchia le ultime in 4’10”.
Per i principianti e i jogger le ripetute sono spesso un rebus e il tutto diventa casuale. Finché non hanno imparato a conoscere bene il loro motore è opportuno che si affidino a un cardiofrequenzimetro per eseguire correttamente la seduta.
La teoria – Durante lo sforzo la gittata cardiaca di un soggetto sedentario arriva a un massimo di 25 l/min, mentre per un fondista può arrivare anche a 40 l/min. Poiché la frequenza dell’atleta è minore di quella del sedentario, ciò vuol dire che la gittata sistolica di un atleta è più che doppia rispetto a quella di un soggetto non allenato.
In un soggetto allenato la gittata sistolica cresce al crescere dello sforzo e raggiunge il massimo a un’intensità pari al 50% circa del massimo consumo d’ossigeno (corrispondente a una frequenza di 100-120 battiti); poi aumenta solo la frequenza cardiaca. Arrivati verso il massimo di frequenza cardiaca, nei soggetti non allenati la gittata sistolica tende a diminuire (accentuando la crisi del sistema), mentre negli atleti resta pressoché costante.
Il recupero – Dalla teoria risulta chiaro che per il runner non evoluto ha senso ripartire quando la sua gittata sistolica è massima e la frequenza cardiaca è minima per tale gittata, cioè a 120 battiti. L’atleta riparte nelle migliori condizioni possibili. Infatti, se partisse a un numero di battiti inferiore, la gittata sistolica sarebbe notevolmente diminuita, producendo una spiacevole sensazione di “partenza a freddo”; se partisse a una frequenza superiore, il suo organismo non avrebbe ancora recuperato completamente dalla prova precedente (massima potenza, ma poca benzina!).

L’allenamento con il recupero a 120 battiti deve essere abbandonato dal runner quando i recuperi diventano comunque troppo stretti.
Il rovescio della medaglia – Quanto più il runner è allenato, tanto più è in grado di lavorare per periodi sempre più lunghi a frequenze maggiori di 120 battiti che rappresentano una soglia tutto sommato di basso allenamento assoluto (cioè per lui recuperare a 120 battiti è troppo facile). Continuare ad allenarsi a 120 battiti vorrebbe dire sottoallenare il sistema senza sfruttarne le potenzialità. Realisticamente, l’allenamento con il recupero a 120 battiti deve essere abbandonato quando i recuperi diventano comunque troppo stretti (inferiori ai 2′ a fronte di una ripetuta impegnativa). Si potrebbe pensare di alzare la soglia a 130 o a 140 battiti. Il discorso però non funziona perché sopra i 120 battiti la situazione di crisi non è relazionata che grossolanamente alla frequenza cardiaca. In altri termini, quando il recupero a 120 battiti è molto veloce, vuol dire che il mio sistema cardiovascolare è ben allenato e non ha più senso continuare ad allenarsi secondo i battiti cardiaci (siano essi 130 o 140 o un altro valore scelto come soglia), ma occorre allenarsi secondo l’ovvio meccanismo di riduzione dei tempi di recupero. Il recupero a 120 battiti ha allenato il sistema cardiovascolare, ma ora è tempo di passare ad allenare anche altre caratteristiche come la gestione delle situazioni lattacide.
L’atleta non ha che una strada: imparare a conoscersi.
Recupero in souplesse: i limiti
Cos’è il recupero in souplesse? E quali sono i suoi limiti? Nelle molteplici tabelle di allenamento, indipendentemente dalla distanza obbiettivo e dal grado di efficienza fisica dell’atleta, si incontrano due tipologie diverse di recupero: il recupero passivo, in cui il soggetto alterna sforzi fisici di durata prefissata con periodi di riposo da fermo, e il recupero attivo. Il recupero attivo può essere svolto a buona intensità (di solito al ritmo del fondo lento) o in souplesse, in cui il soggetto compie un lavoro a bassa intensità.
Se l’esercizio fisico rimane al di sotto di una soglia di intensità pari al 50% della massima potenza aerobica del soggetto, i processi metabolici che avvengono nel recupero non devono rimuovere il lattato dal sangue, in quanto un lavoro a questa intensità non causa nessun accumulo. I processi fisiologici coinvolti servono solo per sintetizzare i fosfati e ricostruire le riserve di ossigeno dei muscoli, oltre a soddisfare la maggior richiesta energetica a causa dell’innalzamento del metabolismo (rispetto al valore basale) che si riscontra anche molto tempo dopo la fine dell’esercizio fisico. In questo contesto il recupero attivo o passivo non ha molto senso, perché non c’è molto da recuperare!
Per capire le caratteristiche del recupero in souplesse, occorre considerare il consumo di ossigeno nella fase successiva la prova, consumo che di norma eccede quello basale. Per questo motivo viene spesso indicato come consumo di ossigeno globale in eccesso (indicato con la sigla EPOC, dall’acronimo dei termini inglesi Excess Postexercise Oxygen Consumption).
L’EPOC è misurato in litri (L) e può essere messo in relazione con la durata dell’esercizio che precede il periodo di recupero. L’EPOC inoltre dipende dai processi fisiologici che intervengono nel periodo successivo alla prova, quindi a seconda della tipologia dello sforzo fisico può avere senso effettuare un recupero attivo o passivo. In particolare [1]:
Se l’esercizio fisico supera una soglia di circa il 60-75% della massima potenza aerobica del soggetto, il periodo che segue lo sforzo fisico è caratterizzato dalla necessità di rimuovere lo stato di accumulo di lattato nel sangue.
Sperimentalmente è stato osservato che
un’attività aerobica a bassa intensità nel periodo di recupero migliora la capacità di smaltire il lattato accumulato nel sangue, quindi migliora il recupero dell’affaticamento.
Ma cosa significa a bassa intensità? Il grado di intensità dell’attività del recupero dipende dal tipo di sforzo fisico, ovvero dallo sport praticato: per la corsa si stima che il recupero in souplesse debba avvenire a un’intensità compresa tra il 55% e il 60% della massima potenza aerobica, mentre per il ciclismo è decisamente più basso (tra il 29 e il 45%).
Questi risultati sono confermati da test effettuati sul cicloergometro [2] che prevedevano un lavoro massimale per sei minuti, seguiti da un recupero di 40 minuti di recupero attivo a bassa intensità (35%) e a intensità mista (due livelli di intensità: 35% e 65%). Queste percentuali si riferiscono tutte alla massima potenza aerobica del soggetto. Misurando la concentrazione di lattato in funzione della durata dell’esercizio, il recupero misto è risultato più efficiente nella rimozione del lattato, rispetto al recupero a bassa intensità (35%), che a sua volta si è rilevato più efficiente del solo recupero passivo.

Souplesse è un termine francese che in ambito sportivo è tradotto come “agilità, scioltezza”
La pratica – I dati sopraesposti chiariscono COME si smaltisce più velocemente l’acido lattico. Non si deve però pensare che la finalità del recupero sia banalmente quella di rimuovere il più in fretta possibile l’acido lattico (troppa grazia!). Troppi atleti cercano sempre la migliore condizione che permette loro di ripartire. Ciò è errato perché la finalità del recupero deve essere quella di “migliorare” una certa caratteristica dell’atleta, mediante uno stress organico sostenibile.
- Se la finalità è di abituare l’atleta ad alte concentrazioni di lattato (gare su 800-5000 m), meglio il recupero da fermo (che non consente uno smaltimento ottimale).
- Se la finalità è quella di abituare l’atleta a gestire a lungo quantità costanti di lattato (tenuta, gare dai 10000 alla mezza) è meglio un recupero attivo a buona intensità (che consente un certo smaltimento, ma non il massimo possibile).
- Il recupero in souplesse (che praticamente è quello migliore per lo smaltimento, soprattutto se la seconda parte della souplesse è più veloce della prima) è indicato invece per chi non riesce a gestire ancora bene l’acido lattico (principianti) o per chi esegue prove molto brevi dove, tutto sommato, non si ha un grande accumulo di lattato (80-200 m). Serve in questo caso a mantenere una certa tensione muscolare.
Recupero affaticante
Recupero affaticante è una locuzione alquanto curiosa – un vero e proprio ossimoro – ma che nell’ambito della corsa ha un significato ben preciso. Quando si eseguono le ripetute di corsa, si è soliti associare la parte breve al ritmo più lento. In questo caso il recupero rappresenta un momento di relativo rilassamento in vista della prova successiva.
Le ripetute con recupero affaticante sono qualcosa di sostanzialmente diverso sia come esecuzione sia come finalità. Nate come test per distanze medio-lunghe (per esempio la mezza maratona), hanno in seguito assunto una dignità autonoma come metodo di allenamento.
L’origine – Supponiamo di voler eseguire un test sulla mezza maratona che non si basi su ripetute classiche, ma simuli in qualche modo la gara. L’atleta però non deve correre al 100% (altrimenti basterebbe fargli correre un 10.000 m e da quello stimare il tempo sulla maratonina, conoscendo il grado di allenamento), ma al 90-95%. Il test può essere così costruito:
3×4000 m al ritmo gara (della mezza cioè) con 1 km di recupero affaticante a (RG-10″).
Cioè: 3000 m+1000 m+3000 m+1000 m+3000 m+1000 m+3000 m = 15 km. Non esistono pause, il tratto da 1000 m è il recupero e affatica perché deve essere corso più velocemente, non più blandamente, come avviene di solito.
Un’avvertenza importante: RG-10″ vuol dire ritmo gara meno dieci secondi, non il 10% in meno del ritmo gara!
L’allenamento è sicuramente impegnativo e deve essere svolto 10-12 giorni prima della gara. Valutando le varie frazioni, si può stimare il grado di forma dell’atleta. Per esempio, se i km affaticanti sono corsi troppo lentamente significa che l’atleta al ritmo gara ha già difficoltà ad aumentare e che probabilmente non riuscirà a tenerlo per 21 km.
Altre indicazioni possono essere date dal confronto fra i tempi dei tre 4000 m ecc.
A cosa serve il recupero affaticante? – Scopo di questo paragrafo non è però quello di indagare il test per la mezza maratona, quanto quello di generalizzare il recupero affaticante. Vediamo innanzitutto a cosa può servire:
- abitua l’atleta a variazione di ritmo sotto al ritmo gara;
- dal primo punto consegue che abitua l’atleta a gestire situazioni di crisi;
- consente di acquisire un notevole senso del ritmo;
- verifica il reale grado di freschezza su certi ritmi (se si è relativamente freschi aumentare di 10″/km non dovrebbe risultare traumatico);
- consente una verifica del ritmo su frazioni di gara utilizzando le stesse modalità fisiologiche della gara.

Il recupero affaticante è particolarmente indicato per gli amatori che corrono la maratona
Come costruire una seduta – Vediamo come si costruisce una seduta di recupero affaticante.
Si parte dalla distanza di gara che si sta preparando.
La lunghezza totale può andare da metà a tre quarti della gara ed è tanto maggiore in percentuale quanto più corta è la gara.
Il numero delle ripetute da correre in genere è 3 o 4.
Il tratto a ritmo gara è 2-5 volte il tratto del recupero affaticante corso a RG-10″.
Supponiamo di considerare come distanza di gara i 10000 m. Lavori interessanti sono:
- 3×2000 m con 600 m affaticanti
- 4×1500 m con 500 m affaticanti.
Poiché la parte più difficile è quella affaticante, occorre tararla in modo che l’atleta riesca a gestirla. I 600 m possono diventare 500 o addirittura 400. Ovviamente più si accorcia la parte affaticante e più l’allenamento diventa facile. Anzi, la lunghezza del tratto affaticante dovrebbe essere massima solo in condizioni di massima forma.
Recupero affaticante e maratona – Il recupero affaticante è particolarmente indicato per gli amatori che corrono la maratona. A differenza dei professionisti che in genere hanno un ottimo senso del ritmo, l’amatore è solito correre la prima parte della maratona più velocemente della seconda (grave errore!).
Allenamenti con recupero affaticante fanno comprendere quanto su lunghe distanze sia deleterio correre anche pochi secondi sotto al proprio ritmo. Un allenamento tipico potrebbe essere costituito da 4×5000 m a RG con 2 km affaticanti (26 km in tutto).
Per esempio, chi vuole correre la maratona in 3h può provare i 5000 a 4’15” e i 2 km affaticanti a 4’05”. Se nell’ultimo 5000 m è in difficoltà deve sicuramente rivedere le proprie ambizioni.
Bibliografia
[1] L. B. Gladden: Lactate uptake by skeletal muscle, in Exercise and Sports Sciences Reviews, vol.17, Editore K. B. Pandolf, Macmillan New York, 1989.
[2] S. Dodd et al: Blood lactate disappearance at various intensities of recovery exercise, J. Appl. Physiol, pagg. 57-1462, 1984.