Febbre da sforzo è un titolo che può indurre in inganno. La febbre, infatti, è un sintomo associato a un grande numero di patologie; il titolo va pertanto inteso come la febbre “causata” dallo sforzo della corsa e non quella che si manifesta a causa di una patologia in atto e che viene esacerbata dallo stress della corsa. Per comprendere il meccanismo per cui nell’atleta si può generare uno stato febbrile, occorre sapere che l’uomo è dotato di un centro di termoregolazione (nell’ipotalamo) che ha l’obbiettivo di mantenere costante la temperatura del corpo. I recettori termici segnalano variazioni della temperatura e attivano risposte fisiologiche in grado di contrastare la variazione di temperatura. La parte anteriore dell’ipotalamo coordina i meccanismi di termodispersione (che abbassano la temperatura corporea), mentre quella posteriore i meccanismi di termogenesi (che alzano la temperatura). Per esempio a tutti è noto che la sudorazione è un valido mezzo di termodispersione. Esistono anche recettori periferici (sulla cute) che inviano informazioni dalla periferia all’ipotalamo. In sostanza noi abbiamo a disposizione un sofisticato termostato che ha lo scopo di mantenere la temperatura corporea stabile attorno ai 37 °C.
La teoria – Nonostante questo termostato sia efficientissimo, è necessario un certo tempo perché la risposta dell’organismo ristabilisca la temperatura: pensiamo a una camera condizionata a 25 °C in cui venga aperta la finestra in piena estate (35 °C) per un’ora: dopo la chiusura della finestra il condizionatore impiegherà comunque del tempo per riportare la temperatura a 25 °C. In questo esempio è chiaro a tutti che il ripristino della temperatura dipende dalla temperatura esterna, dalla grandezza della finestra, dal tempo in cui resta aperta, dalla potenza del condizionatore ecc.
Nel caso di uno sforzo fisico, l’aumento di temperatura e il successivo ripristino dipendono da:
- intensità dello sforzo;
- durata dello sforzo;
- allenamento del soggetto e sue capacità di recupero.
Rifacendosi al nostro esempio, il primo punto è analogo alla quantità di caldo che entra dall’esterno e il secondo alla durata di apertura della finestra. Nel caso sportivo occorre però riferirsi alla soggettività dello sforzo e non al suo valore assoluto: un lavoro pari al 50% del VO2Max innalza la temperatura di soli 0,3 gradi, mentre un lavoro al 75% la innalza di 1,5 gradi (cioè fino a 38,5 °C). Poiché stiamo parlando di sport di resistenza, l’aumento non è istantaneo, ma raggiunge il suo valore massimo dopo un tempo che dipende dall’allenamento del soggetto (qualche decina di minuti): quanto più il soggetto è allenato, tanto più il massimo è raggiunto tardi. Poi, per un periodo sufficientemente lungo (da un’ora a qualche ora), la temperatura tende a rimanere costante, prima di un ulteriore innalzamento che segnala una situazione di netta crisi.
Questi dati sono stati desunti da Saltin ed Hermansen e sono considerati ormai consolidati, nell’ovvia ipotesi che lo sforzo si svolga in condizioni di temperatura esterna ottimale allo sforzo stesso. In genere una condizione esterna non ottimale (temperatura troppo alta) accorcia significativamente i tempi di innalzamento della temperatura corporea.
Il terzo punto è meno relazionabile all’esempio del condizionatore. Infatti fin dagli studi di Asmussen (1945) si suppone che l’innalzamento della temperatura faciliti il metabolismo legato alla prestazione e al recupero; ciò è tanto più vero quanto più lo sforzo è breve e violento. In altri termini, su distanze relativamente brevi (diciamo fino ai 5000-10000 m), dove la parte anaerobica è ancora significativa, il soggetto allenato aumenta la temperatura del suo corpo per ottenere una prestazione migliore (del resto è anche uno degli scopi del riscaldamento: non a caso molti atleti ottengono grandi prestazioni dopo un lungo riscaldamento), ma nello stesso tempo, tale aumento svanisce velocemente dopo lo sforzo perché i meccanismi di recupero sono molto buoni.
Febbre da sforzo patologica
Quando si può parlare quindi di febbre da sforzo patologica da corsa? Quando
in relazione allo sforzo sostenuto la temperatura corporea sale troppo o permane alta troppo a lungo.
Se si corre una gara di 5000 m (al termine la temperatura rettale può arrivare a 41 °C) è normale avere una temperatura sopra i 37,5 °C ancora per diverse ore dopo la gara. La stessa cosa si può dire per una maratona.
Ai fini della febbre, cioè dell’aumento della temperatura corporea, lo sforzo anaerobico conta quanto più è intenso, mentre quello aerobico quanto più è prolungato.
Un atleta che corre 10 km a un ritmo che è di 30″/km più lento di quello della maratona, realisticamente dopo un’ora dall’allenamento (che è sostanzialmente un fondo piuttosto lento) non deve rilevare un significativo aumento della temperatura.
Stessa cosa per chi corre 000 m al ritmo che è solito tenere su una gara di 5000 m.
Nei principianti la scarsa esperienza e lo scarso allenamento possono portare a frequenti “febbri da corsa”, soprattutto se, nell’ottica di bruciare le tappe, l’atleta è portato a tirare a ogni allenamento; nei soggetti molto allenati è invece il sovrallenamento che può portare a un’eccessiva frequenza del fenomeno.
Febbre e dolori muscolari
Esiste ovviamente una correlazione (ma non un nesso causale, nel senso che non sono i dolori muscolari che causano la febbre) fra febbre da corsa e dolori muscolari: entrambe le situazioni evidenziano un impegno eccessivo e sono la fotografia di un corpo che deve ripristinare il suo stato ottimale.

Ai fini della febbre, cioè dell’aumento della temperatura corporea, lo sforzo anaerobico conta quanto più è intenso, mentre quello aerobico quanto più è prolungato
Cosa fare in caso di febbre da sforzo nel dopo corsa
Se si presenta con una certa frequenza dopo allenamenti blandi oppure permane dopo 8-12 ore da gare impegnative (per la maratona anche 24-36 ore!) è necessario escludere il caso di un sovraccarico allenante e agonistico e procedere ai soliti check-up clinici.