Esistono molte tipologie di età (biologica, cronologica, metabolica, psicologica ecc.) e noi riteniamo di poterne introdurre un’altra: l’età sportiva. Con questa locuzione intendiamo indicare la valutazione temporale dell’attività sportiva del soggetto. A differenza di altri tipi di età, l’età sportiva non si esprime in anni, bensì in periodi che possiamo definire nel modo seguente: adolescenza sportiva, maturità sportiva, vecchiaia sportiva. L’adolescenza sportiva è quella fase in cui l’atleta non ha ancora raggiunto gran parte del proprio potenziale, i miglioramenti sono facili e continui. È la condizione dei giovanissimi, dei principianti, ma anche di coloro che per motivi vari non dedicano allo sport molte energie fisiche e psichiche, pur praticandolo regolarmente. Il periodo della maturità sportiva è invece quello in cui l’atleta ha raggiunto il suo potenziale fisiologico o è a molto vicino a esso, tenendo conto dell’età del soggetto e dell’invecchiamento teorico. Terzo e ultimo periodo è quello della vecchiaia sportiva; se si trova in questa fase, l’atleta o non ha più come scopo la prestazione oppure ha avuto un netto scadimento prestativo che non appare giustificabile con il solo invecchiamento teorico.
È ovvio che scopo di tutti noi dovrebbe essere quello di non entrare mai nel tunnel della vecchiaia sportiva e il fine ultimo di questo articolo (orientato a tutti coloro che stanno praticando sport dai 35 ai 50 anni, soprattutto quelli che non lo hanno fatto da giovanissimi) è quello di insegnare come invecchiare il meno (e il meglio) possibile.
Nota – Gli esempi che faremo nel prosieguo dell’articolo fanno riferimento ad atleti che praticano il running, ma gli stessi concetti sono applicabili alla maggior parte delle discipline sportive.
La seconda classe di rischio
Premessa fondamentale di tutto il discorso è un dato ormai confermato da molte ricerche: mentre le cause di rischio per un soggetto di mezza età sono esterne (quelle note: fumo, sovrappeso, indice di rischio cardiovascolare alto, ipertensione arteriosa ecc.), per un over 80 sono soprattutto psicologiche. È come se ci fossero due classi di fattori di rischio: superati gli 80 anni, la prima classe ha già fatto la sua selezione ed è poco importante.
La diminuzione dell’autosufficienza e dell’autostima, l’isolamento sociale, l’assenza di interessi sono i maggiori fattori di rischio perché portano l’anziano in condizioni di vita inaccettabili e sono il preludio di malattie classiche della vecchiaia.
Problemi fisici o psicologici?
È tendenza comune ritenere che le cause sopraccitate siano una conseguenza dei problemi fisici della vecchiaia. Niente di più sbagliato, anche se i media continuano colpevolmente a diffondere questa convinzione.
Senza voler entrare nel dettaglio, si pensi al problema della solitudine degli anziani. La percentuale di anziani continua ad aumentare: cosa impedisce a un anziano di avere amici proprio come un giovane, di trovare in persone della sua stessa età quei contatti sociali che mancherebbero? È del tutto assurdo che un giovane debba preoccuparsi di non lasciare solo un anziano quando questi evita i contatti con suoi coetanei, persone che dovrebbero essere molto vicine a lui nel sentire.
A prescindere da pietismi che rendono poco oggettivi, l’anziano è solo perché con l’età non sopporta più i rapporti sociali, diventa eccessivamente esigente e ipercritico e vorrebbe che gli altri si adattassero a lui, mentre dovrebbe essere lui adattarsi agli altri!
Due anziani che vivono in due case attigue spesso si ignorano perché non si sopportano.
La seconda classe e lo sport
Cosa c’entrano le premesse precedenti con lo sport? Anche per lo sportivo esiste la seconda classe di rischio e anche in questo caso è eminentemente psicologica. Superata la prima fase in cui il soggetto:
- impara ad allenarsi,
- ha un buon rapporto con l’alimentazione,
- raggiunge un buon livello di prestazione (relativamente alle sue possibilità),
l’errore comune consiste nel ritenere che questi aspetti possano bastare per correre per sempre.
In realtà, è in agguato la seconda classe di problemi, precipuamente psicologici.
La deformazione prestativa
Il soggetto continua per alcune stagioni a ricercare la massima prestazione possibile. Poiché a 40 anni ha fatto il suo record sui 10000 m, a 45 non comprende perché, rimasto tutto immutato, corra 5-10″ più lentamente. Per alcuni i cali prestativi si verificano a 35 anni, altri a 40, altri a 45.
Esistono persino casi in cui l’età è superiore a 50 anni. Tali dati non possono però illudere. Non significa che il soggetto non è invecchiato, ma che ha imparato a conoscersi e a gestirsi talmente bene che a oltre 50 anni ha fatto ancora il suo record e che probabilmente è solo invecchiato molto meno di altri. Con lo stesso bagaglio di conoscenze (che non aveva) 10 anni prima avrebbe corso comunque più velocemente.
Alla presa di coscienza della collinetta (termine suggestivo con il quale si vuol fare riferimento a un andamento della prestazione agonistica lentamente crescente fino a un massimo e poi lentamente, ma inesorabilmente decrescente) la gran parte degli atleti reagisce in modi sbagliati:
- abbandonano la corsa (lo sport)
- continuano a correre esagerando gli effetti dell’invecchiamento.
Questo secondo punto è devastante perché alla fine l’invecchiamento diventa la scusa di ogni prestazione, l’alibi per allenarsi sempre di meno, la causa di un progressivo ritorno nelle file dei sedentari. In realtà, poiché scientificamente dopo i 40 anni il miglior invecchiamento possibile è di 1″/km, la strategia migliore è di cercare di mantenere la prestazione nei limiti del miglior invecchiamento possibile. Un atleta che a 40 anni corre i 5000 m in 20′ a 60 anni deve porsi l’obiettivo di correrli in 23’20”.
Attenzione ai “buchi” – Il precedente proposito deve però essere continuo nel tempo. Sembra ormai certo che il miglior invecchiamento possibile sia realistico solo se l’atleta resta sempre in attività. Lunghi stop dovuti a disamore per lo sport, infortuni, motivi extrasportivi ecc. vanificano in parte la strategia anti-invecchiamento.

A differenza di altri tipi di età, l’età sportiva non si esprime in anni, ma in periodi “sportivamente” così definibili: adolescenza, maturità, vecchiaia
La deformazione agonistica
Nelle gare fra amatori esistono le classifiche per fasce di età (le cosiddette “categorie”). Anche al di fuori dell’agonismo, spesso i runner tendono a confrontarsi solo con persone della stessa età (che magari sono invecchiate male), predisponendosi a moltiplicare gli effetti dell’invecchiamento (si legga per approfondimenti l’articolo Categorie e invecchiamento).
Il parametro di confronto non è più un dato scientifico (1″/km per anno), ma un caso particolare (il nostro avversario, che magari sta invecchiando malissimo). Alla lunga ciò porta inevitabilmente ad “accontentarsi” dei risultati.
Diversificazione: una scelta corretta?
Nel già citato articolo sulla collinetta abbiamo spiegato che la miglior strategia contro il calo della prestazione è quella di specializzarsi.
Incredibilmente, molti runner fanno esattamente il contrario: diversificano. Smettono di fare le cose che hanno sempre fatto e si dedicano ad altro. Se dietro a questa scelta c’è spesso il desiderio di non vedere peggiorare le proprie prestazioni (come per esempio accade nel caso di chi passa alla maratona, disciplina in cui l’esperienza consente all’amatore miglioramenti “fittizi”, cioè non fisiologici, fino in tarda età), la diversificazione risulta incomprensibile quando si applica anche agli allenamenti: si abbandona la pista (chissà perché dovrebbe essere più traumatica di una gara su un percorso terrificante), si abbandona la velocità, si inserisce una seduta (o passeggiata?) di bici “per recuperare meglio” (si sa, con l’età il recupero diminuisce: frase classica di chi vuole giustificare una diminuzione del carico allenante), il lento si trasforma in jogging ecc.
L’ipocondria
Un aspetto psicologicamente negativo è l’ipocondria. Se sotto ai 40 anni il soggetto è solo preoccupato a tratti che la corsa possa danneggiare la sua salute, ecco che con il passare degli anni le preoccupazioni ipocondriache prendono il sopravvento e gestiscono la vita sportiva.
Anche la frase “non ho più l’età per certe cose” è, a ben vedere, una forma di ipocondria.
La conseguenza di un atteggiamento ipocondriaco è che l’atleta “impara” a sottoallenarsi e a gratificarsi del solo fare sport, a prescindere dalla reale utilità di quest’ultimo. Non esiste nessuna pianificazione, nessun obiettivo (realistico), nessuna ambizione.
Il risultato di un tale atteggiamento non è la preservazione della propria salute, ma il veloce scivolamento nella sedentarietà (dalla corsa si passa velocemente al jogging, al walking, alla passeggiata salutare ecc.).
Un dato incoraggiante in questo senso viene dalle statistiche delle categorie amatori. Trent’anni fa erano pochissimi gli over 60 e pochi gli over 50 ben allenati. Chi correva in queste categorie spesso correva solo per arrivare e raccattare il premio di categoria. Oggi la categoria dei cinquantenni è molto numerosa e anche quella degli over 60 è ben nutrita di atleti che si allenano regolarmente e proficuamente.
A occhio e croce la situazione è migliorata di circa 10 anni (gli over 70 oggi ben allenati sono veramente rari), ben oltre il miglioramento della vita media in questo trentennio, a riprova che il problema è solo psicologico.