Correre fa male? Sono veramente stufo di rispondere a visitatori preoccupati dal solito articolo-spazzatura comparso su questo o quel giornale (anzi, spesso lo stesso articolo in forma di fotocopia fa il giro di tutti i giornali!). I giornali scientifici pubblicano ricerche, ma non significa che queste ricerche siano scienza (per capire: Ricerca scientifica), sono solo punti di vista di ricercatori che ambiscono a fissare dei punti più o meno fermi (scientifici, appunto); ma la pubblicazione è solo un primo passo, tant’è che è facile trovare una ricerca che promuove un certo fattore e un’altra che lo boccia. Nel mondo dello sport i ricercatori cercano di vendere come “scienza” la loro visione del mondo; così i sedentari sono orientati a dirci che la corsa (lo sport) fa male, mentre i più sportivi fissano parametri più “seri” di attività fisica (non certo i 20′ di camminata). Per farlo usano un trucco purtroppo diventato molto popolare fra ricercatori assolutamente incapaci di fare della vera scienza: mostrare al pubblico correlazioni facendo credere che siano “cause”. La gente non sa bene che cosa sia una correlazione e ci casca. Vediamo il trucco usato con dati a tutti comprensibili.
Per vincere una gara d’atletica alle Olimpiadi è preferibile indossare calzoncini chiari. L’Università dei Tonti ha analizzato tutti i vincitori olimpici delle gare di atletica e ha scoperto che chi indossa calzoncini chiari ha il doppio di probabilità di vincere di chi indossa calzoncini scuri. Ovvio che si tratta di una sciocchezza, ma la sciocchezza non sta tanto nel diffondere dati falsi (magari i dati sono proprio questi), quanto nello stabilire un rapporto causa-effetto. Oggi il modo più facile (e più socialmente inutile) di pubblicare una ricerca sulla salute è pubblicare correlazioni: si prende un campione, si segue per un po’ di tempo e poi si va a vedere cosa succede, salendo in cattedra per mostrare risultati strabilianti! A mo’ di esempio commentiamo la ricerca più demenziale recentemente portata alla cronaca dai giornali.

L’attività fisica aerobica aumenta i livelli di colesterolo HDL (colesterolo buono)
Correre troppo velocemente può essere letale quanto l’essere inattivi
(Huffington Post 3/2/2015; ma la stessa ricerca è comparsa su tante altre testate). Troppo esercizio può davvero uccidere. A sostenerlo un gruppo di scienziati che ha scoperto che correre a una velocità di 11 chilometri orari potrebbe fare più male che bene. In uno studio condotto su 1.098 corridori gli esperti hanno trovato che coloro che correvano più velocemente avevano una probabilità nove volte più alta di morire prematuramente entro 12 anni rispetto a coloro che viaggiavano ad un ritmo più tranquillo di circa 8 chilometri all’ora per due o tre volte alla settimana.
In realtà, i corridori più energici avevano quasi le stesse probabilità di morire di quelli che non avevano fatto mai alcuna attività fisica. “Ci deve essere un limite massimo per l’esercizio affinché produca benefici per la salute”, ha detto Peter Schnohr, ricercatore del Copenhagen City Heart Study, Frederiksberg Hospital di Copenhagen, in Danimarca. “È importante sottolineare che l’andatura del jogging corrisponde a un esercizio molto vigoroso”.
“Se eseguito per decenni, questo livello di attività potrebbe comportare rischi per la salute, in particolare per il sistema cardiovascolare”, continua lo studioso. “Se il vostro obiettivo è quello di diminuire il rischio di morte e di migliorare l’aspettativa di vita, fare jogging un paio di volte alla settimana ad un ritmo moderato è una buona strategia. Oltre questo limite, gli effetti non solo possono esser inutili, ma addirittura dannosi”.
I ricercatori hanno esaminato 5.048 sani partecipanti al Copenhagen City Heart Study e li hanno interrogati sull’attività da loro condotta. Hanno poi rintracciato 1.098 corridori sani e 413 non corridori sani, ma sedentari da 12 anni. Coloro che praticavano jogging da 1 a 2,4 ore a settimana erano associati a una più bassa percentuale di mortalità e la frequenza della corsa era di tre volte a settimana.
Inoltre coloro che tenevano durante la corsa ritmo lento e moderato avevano un’aspettativa di vita più lunga. Mentre i jogger più “spericolati” correvano quasi lo stesso rischio di mortalità delle persone sedentarie. I ricercatori hanno registrato 28 morti tra gli amanti dello jogging e 128 tra i sedentari non amanti del jogging. In generale, i joggers erano più giovani, avevano un indice di pressione arteriosa e di massa corporea più basso e meno abitudine al fumo.
Maureen Talbot, medico al British Heart Foundation, ha detto: “Questo studio dimostra che non devi correre maratone per mantenere il cuore sano”. Il jogging leggero e moderato è più vantaggioso dell’essere inattivi o di una corsa a ritmi molto sostenuti e può allungarci la vita.

La curva di rischio cardiovascolare diminuisce all’aumentare dell’esercizio fisico praticato fino ad avere un minimo con 6-8 ore settimanali
Correre fa male o fa bene? Il commento
Iniziamo con l’analisi dei due parametri presenti in quasi tutte le ricerche.
Il campione – Affinché un campione sia significativo deve almeno:
- essere sufficientemente numeroso;
- essere scelto a caso nella popolazione;
- la popolazione deve essere significativa per una generalizzazione.
Già questi tre punti bocciano moltissime ricerche.
La difficoltà dei primi due punti è per esempio dimostrata dai molti flop degli exit poll.
Cosa vuol dire però “numeroso”? Senza entrare in dettagli statistici, basta comprendere che numeroso vuol dire una buona percentuale della popolazione. Se, per esempio, scelgo 1.000 italiani, la possibilità che i risultati divergano da quelli che si sarebbero avuti se ne avessi scelti 10.000.000 non è certo trascurabile. Cominciamo a capire come siano risibili ricerche che studiano il comportamento di 100 o 1.000 soggetti al massimo: non vuol dire che i dati e i risultati siano scorretti, vuol semplicemente dire che ci possono essere decine di fattori ignoti o non considerati per i quali prendendo altri 100 o 1.000 soggetti i risultati sarebbero stati diversi!
Cosa vuol dire “scelto a caso”? Vuol dire “sorteggiato fra la popolazione”. Se si prende un campione di volontari (come di solito avviene nelle ricerche), già ci si è giocata parte dell’affidabilità della ricerca perché “volontario” porta con sé una serie di caratteristiche che non è detto non inquinino la ricerca.
L’ultimo punto rischia di essere ancora più subdolo. Se si prendono tutti gli abitanti di una città (per esempio inviando a casa loro un questionario), è una grossolana interpretazione attribuire i risultati a tutta la regione o a tutta la nazione.
La durata – La durata della ricerca può non essere una variabile da considerare, ma per molte ricerche sulla salute è invece fondamentale: “il campione è stato seguito per x anni… ecc.”.
In genere più la durata è lunga e più la ricerca costa, per cui di solito si usano periodi troppo brevi per una reale significatività pratica dei risultati. In particolare, un trucco abbastanza gettonato (il trucco delle morti) “permette” ai ricercatori di barare in modo elegante: anziché considerare la durata della vita dei partecipanti al campione, si considerano le morti durante un periodo di tempo limitato. Per capire il trucco, si consideri la solita Università dei Tonti che pubblica una ricerca che stabilisce senza ombra di dubbio che fumare 20 sigarette al giorno incide pochissimo sulla salute. Il capo della ricerca, il prof. Stupido de’ Stupidi: “abbiamo seguito due campioni di 1.000 volontari fra i 20 e i 40 anni per 10 anni; nel primo gruppo (fumatori di almeno 20 sigarette al giorno) si sono avute 12 morti, nel secondo (non fumatori) 9; la differenza di 3 decessi non è significativa, quindi, fumate pure!”. In realtà, se si fossero seguiti i due campioni fino alla morte dei partecipanti sia sarebbe visto per esempio che per il primo la vita media era di 69 anni, mentre per il secondo di 79, anche perché i danni del fumo incominciano a diventare devastanti dopo i 50 anni.
La ricerca – Veniamo ora ai tantissimi errori contenuti nella ricerca.
1 – I campioni non sono significativi: anche se 1.000 o 5.000 possono sembrare numeri decenti, rispetto alla popolazione non sono significativi, soprattutto perché sono stati scelti fra i volontari di un programma cardiologico.
2 – La durata è ridicola perché 12 anni è il classico periodo che sfrutta il trucco delle morti esaminato sopra. In soggetti al di sotto dei 50 anni, la morte è spesso dovuta a cause (per esempio tumori) che lo sport può solo marginalmente contribuire a combattere; anzi paradossalmente, rispetto a un soggetto magro, un soggetto giovane, ma in sovrappeso, può sopportare meglio il dimagrimento che la lotta contro un tumore può comportare (ciò spiega in parte il risultato sulla velocità: sicuramente il peso medio di chi corre piano è maggiore rispetto a chi corre più veloce). La ricerca sarebbe stata molto più sensata se avesse seguito i soggetti fino alla morte, ma ovviamente i ricercatori “dovevano” pubblicare qualcosa molto prima.
3 – Su 1.000 (circa) jogger, la curva delle velocità è circa a forma di campana che va da 6 a 18 km/h (lasciamo perdere zombie e campioni), con il lato destro più lungo e con il massimo probabilmente attorno ai 10 km/h. 1.000 soggetti divisi per 12 categorie, vuol dire trovare 80 soggetti circa che vanno a 8 km/h e 80 che vanno a 11 km/h. Confrontare insiemi di 80 soggetti e dedurne affermazioni da Nobel è solo comico.
4 – Il punto precedente fa comunque capire che i ricercatori non sanno che cosa sia la corsa e che studiare un fenomeno che non si conosce fa prendere grandi abbagli. Infatti:
- E quelli che vanno a 13, 14… 18 km/h? Sembra che per i ricercatori queste velocità siano “impossibili”; se si dovesse proseguire il loro ragionamento questi runner dovrebbero morire come mosche.
- Non sanno nemmeno capire che il concetto di velocità è relativo a caratura atletica del soggetto, età, sesso, grado d’allenamento ecc. Per molti correre a 11 km/h è correre molto piano, una vera e propria passeggiata. Ragionare in termini assoluti di velocità boccia la ricerca senza appello.
- Il ricercatore ci avverte che “l’andatura del jogging corrisponde a un esercizio molto vigoroso”: Forse per lui. Sono convinto che, correndo alla folle velocità di 11 km/h in compagnia del professore, mentre lui sbanfa e rischia l’infarto, io parlo tranquillamente e magari mi mangio anche un croissant.
- Definire “spericolato” un runner che va a 11 km/h è come definire “incosciente” chi guida a 70 km/h in un giorno di piena visibilità su un’autostrada vuota!
5 – La chiusa della povera Talbot mostra come la gran parte dei ricercatori siano dei parassiti sociali (nel senso che anziché pagarli si dovrebbero licenziare subito). Questa persona è laureata e dovrebbe essere in grado di ragionare correttamente; invece afferma: “Questo studio dimostra che non devi correre maratone per mantenere il cuore sano”. Incredibile scambia la variabile velocità con la variabile spazio! Nello studio si parla di velocità, i runner vengono analizzati per categorie di velocità, non per categorie di spazio (la durata dell’allenamento). Che c’entra il correre a medio-alta intensità con il correre la maratona? Forse il sogno inconfessabile della Talbot è proprio correre la corsa di Filippide e, non riuscendoci, si aggrappa a ogni cosa per trovare un alibi.
Conclusioni – Se, alla prossima ricerca contro la corsa (fatta bene, perché anche lo sport può fare male), dopo aver letto questo articolo, vi restano dei dubbi, datemi retta, scegliete di suicidarvi con un quintale di patatine mentre, sdraiati sul divano, vi sorbite alla tv tutte le stagioni registrate de L’isola dei famosi.
Un esempio di ricerca fuorviante
Secondo una ricerca spagnola, dopo una gara di resistenza in alcuni individui la prestazione atriale risulta significativamente compromessa.
Il team dei ricercatori, guidato dalla dottoressa Maria Sanz-de la Garza, ha utilizzato un’ecocardiografia per valutare la funzione atriale dopo tre diversi trail running (14 km, 35 km e 56 km) in base alla precedente formazione dei podisti (il gruppo S è stato allenato per meno di 3 ore a settimana, l’M 3-10 ore a settimana, mentre l’L più di 10 ore a settimana).
Gli studiosi hanno sottoposto a ecocardiografia 20 corridori in ogni gruppo 24 ore prima della gara ed entro la prima ora dall’arrivo al traguardo.
Ci sono state significative differenze inter-individuali nella risposta atriale all’esercizio. Gli atleti che hanno corso per 14 km tendevano a mostrare un aumento sia nella funzione serbatoio sia in quella contrattile; quelli che hanno percorso 35 km hanno mostrato una diminuzione della funzione serbatoio e un aumento di quella contrattile; quelli che hanno corso 56 km hanno mostrato una diminuzione sia della funzione di serbatoio sia di quella contrattile.
La classica ricerca svolta da chi vuole presentarsi a una comunità (quella sportiva) con credenziali che diano lustro basandosi sulla novità del messaggio. Un ricercatore serio avrebbe approfondito proprio quegli aspetti che la ricerca affida a studi futuri. Ci sono migliaia di atleti di resistenza ancora in vita: non sarebbe stato logico analizzare l’incidenza delle patologie atriali in un insieme abbastanza numeroso di essi?
Continua a stupirmi come molti credano a queste ricerche di pastafrolla piuttosto che al loro buon senso. Possibile che non ci si arrivi da soli a smontare la ricerca? Eppure mi sono arrivate un paio di mail “preoccupate”.
Voi capite che avere le pulsazioni a 90 non è certo normale. Cosa mi direste se pubblicassi una ricerca dove analizzo X atleti e scoprissi che dopo dieci minuti dalla fine della gara (supponiamo un 10000 m) le loro pulsazioni sono rimaste molto più alte del loro basale (magari sparo anche il trucco delle percentuali relative e vi do un terrificante +40%) e concludessi che lo sport fa male perché il cuore non funziona più bene?
La ricerca in questione evidenzia proprio un fatto simile: è abbastanza evidente che dopo un duro trail (di cui l’ultimo di 56 km non è certo comune a tutti coloro che fanno corsa di resistenza, tanto valeva farli correre per 150 km e poi vedere che qualcuno si sentiva male) il cuore si comporti in maniera diversa, ma questo non vuol dire che ne sia stato danneggiato, anzi potrebbe essere semplicemente l’inizio a un adattamento positivo, a un ulteriore rafforzamento.
La poca serietà dei ricercatori è mostrata dal fatto che con un po’ di impegno avrebbero potuto osservare gli atleti non solo entro un’ora dalla fine della gara, ma anche dopo un giorno o dopo una settimana, proprio per rilevare danni permanenti. Invece la voglia di pubblicare qualcosa li ha ingolositi a tal punto da far loro affermare concetti che il più somaro studente di medicina avrebbe potuto contestare con il solo buon senso.