Come deve essere l’allenamento dei bambini alla corsa? Iniziamo col dire che la locuzione allenare un bambino non è particolarmente felice perché allenare implica avere la prestazione come metro di giudizio, cosa che per un bambino può essere controproducente e devastante.
Prima di iniziare un vero e proprio allenamento è opportuno completare due fasi, senza le quali si perde di vista la priorità fondamentale: il bene del bimbo.
Prima fase: l’amore per la corsa
Mi ricorderò sempre di una bambina portata dal padre per settimane al campo d’atletica con l’intento di “farle amare” la corsa. Un giorno, vedendola triste e taciturna, mentre guardava il genitore che inanellava giri su giri, le chiesi come mai non provasse a correre. La risposta fu semplice e disarmante: “a me non piace la corsa, a me piace la pallavolo”. Ovviamente il padre non le aveva mai chiesto se le piacesse correre! Questo aneddoto dimostra che la prima fase è tutt’altro che scontata, soprattutto se il genitore è un runner.
Se non è sportivo, può scattare comunque una repulsione verso la corsa e lo sport in generale perché il bambino tende a emulare il genitore. Se quest’ultimo è sedentario, in sovrappeso, fumatore ecc. ogni suo proposito di avviare il figlio allo sport rischia di andare in frantumi per il semplice fatto che il bambino “non capisce” il valore che il genitore tenta di trasmettergli senza, a sua volta, viverlo.
Seconda fase: il divertimento
La corsa è uno sport individuale e come tale più per adulti che per bambini, spontaneamente orientati a considerare come prioritario soprattutto ciò che piace. Non ha cioè caratteristiche ludiche, in parole povere, non è un gioco.
Sarà pertanto importante far vivere la corsa come un gioco, privilegiando il contatto con altri bambini (pensiamo alla trasformazione in gioco di squadra con l’esaltazione della staffetta) o con alcune forme dell’allenamento del genitore (per esempio chiedendo al bambino di accompagnarci per una porzione del riscaldamento); in questa seconda fase, non si dovrà mai superare la soglia di fatica che deve essere inconsciamente stimolata con la “voglia di giocare” ancora.
In questa seconda fase si inserirà naturalmente la crescita armonica del corpo per predisporlo al vero allenamento.

Come si allena un bambino? Quali sono le tappe fondamentali da seguire e gli errori da evitare?
Terza fase: l’allenamento
Solo una certa percentuale di bambini supererà le prime due fasi, realisticamente non più del 30-40%. L’importante è che i rimanenti siano almeno orientati verso altri sport, a prescindere dalle preferenze dei genitori e non vadano a ingrossare le file dei ragazzi totalmente sedentari.
La terza fase inizia con la comprensione tecnica del bambino, cioè delle sue qualità sportive.
Poiché ogni allenamento produce modifiche organiche, è abbastanza assurdo allenare alla velocità per 5-6 anni un bambino che è dotato per la corsa di resistenza (e ovviamente il viceversa): il risultato è che ci sarà una piccola trasformazione verso le qualità veloci (fibre, muscolatura ecc.) che sarà penalizzante quando si dirotterà il ragazzo verso la corsa di resistenza. Si può con certezza affermare che un ragazzo che pratica solo calcio con regolarità dai sei ai quattordici anni, difficilmente diventerà un maratoneta a livello nazionale. Come fare per capire le potenzialità di un bambino? Semplice, andando per esclusione.
Senza essere affetti dalla “sindrome del genitore” (ogni scarrafone è bell’ a mamm’ soja), occorre valutare il potenziale del bambino sul veloce (40 m). Lo si fa confrontandolo non tanto con coetanei quanto con ragazzi sviluppati come lui, per eliminare eventuali ritardi o anticipi nello sviluppo. Se il ragazzo è decisamente veloce (deve essere in grado di prevalere sul 90% dei riferimenti), si può avviare alla velocità. In caso contrario, è opportuno pensare alla corsa di resistenza, non tanto ai fini agonistici, quanto ai fini salutistici. È molto meglio una mediocre carriera giovanile da fondista che una mediocre da velocista, perché nel primo caso la pratica della corsa può tranquillamente continuare anche dopo la fine dell’agonismo.
Definite le potenzialità, occorre superare l’ultimo ostacolo: l’allenatore. Troppo spesso, per ottenere risultati, l’allenatore accelera i tempi, inserendo una quantità eccessiva e allenamenti di qualità che sono in grado di far maturare prima il suo allievo: può darsi che il bambino/ragazzo vinca i campionati italiani nelle categorie inferiori, ma il risultato è dovuto solo al fatto che è più avanti dei suoi coetanei. Appena questi lo raggiungeranno, sparirà dalla scena agonistica.
Per i bambini che si desidera avviare alla corsa di resistenza, quando il bambino avrà preso contatto con la fatica, la terza fase inizierà inserendo la corsa lenta come principale metodo allenante. Del resto i ragazzi keniani da bambini non fanno che una cosa: correre. Ovviamente la durata non può essere paragonabile a quella di un adulto; una seduta tipica può andare dai 10′ ai 30′; a essa seguiranno i giochi. Infatti l’allenatore non si dovrà dimenticare dell’ingrediente divertimento e si inventerà fartlek di gruppo, gare ad handicap, staffette, circuiti con ostacoli, tutte soluzioni che non sono ancora legate chiaramente al cronometro e alla prestazione. Persino le andature per formare una corretta tecnica di corsa devono essere introdotte come gioco.
Leggi anche: Bambini e la corsa.
Come si allena un bambino – IL COMMENTO
Se tuo figlio è “solo” un piazzato…
L. mi chiede un consiglio su come affrontare correttamente il problema del figlio; fino a qualche mese fa vincente, ora non è che un piazzato.
Vorrei avere qualche consiglio da te su come poter gestire la sua (e anche di riflesso la nostra) frustrazione da “prestazione negativa in gara”.
La prima cosa che si deve insegnare a un bambino quando lo si avvicina allo sport è che non ci si deve sentire frustrati quando si perde o quando non si ottiene il risultato voluto.
Prima di imparare a vincere si deve imparare ad arrivare ultimi.
Questo compito spetterebbe ai genitori e all’allenatore. Purtroppo quasi tutti gli allenatori dei ragazzi hanno come obiettivo la prestazione, finendo per creare nei giovani un’autostima da risultato che si rivelerà devastante quando cresceranno e non riusciranno a ottenere ciò che desiderano. Altri allenatori spingono sui ragazzi, spremendoli con storie come “ma non dai abbastanza”, “puoi fare di più” e sciocchezze simili. Il risultato è che magari il ragazzo diventa un campioncino, ma ipervaluta la funzione dello sport, dedicando a esso troppe risorse. Così un campione italiano “allievi”, che poi si arena a 18-20 anni e che è solo un mediocre negli studi, nella vita non combinerà mai nulla di positivo.
Anziché chiederti cosa può servire per far vincere tuo figlio, dovresti chiederti perché non esprime il suo potenziale, ammesso che sia vero che lo abbia enorme. Molti ragazzi seguono una disciplina solo perché ottengono qualche approvazione, dai genitori, dagli insegnanti, dai loro compagni. Ma in cuor loro non amano ciò che fanno. Io ho sempre ottenuto il 110% di quello che valevo solo perché amavo ciò che facevo e il risultato non mi importava più di tanto.
Per cui, la prossima volta che tuo figlio arriva 15-esimo e lo vedi abbattuto, con il sorriso sulle labbra, chiedigli se si è divertito. Se ti risponde di no, spiegagli che forse è meglio che lasci perdere lo sport; se ti risponde di sì, sentenzia semplicemente: “bene, come vedi, non è importante vincere!”.
Nota: i risultati che noi otteniamo devono essere una conseguenza del nostro stile di vita, non l’obiettivo unico del nostro agire.