Quando si vuole introdurre un bambino alla corsa (ma in generale, all’attività sportiva) la prima cosa che si deve avere presente è che è fisiologicamente e psicologicamente molto differente da un adulto.
Molti runner si improvvisano allenatori dei propri figli o, peggio, dei figli di altri senza avere questa consapevolezza, anzi l’errore più comune è proprio di ritenere il bambino “più o meno” equivalente all’adulto.
I punti che esporremo nell’articolo valgono sicuramente per bambini delle scuole elementari e sono da tenere in considerazione anche per i ragazzi delle scuole medie inferiori.
Differenze fisiologiche
Possiamo citarne principalmente cinque.
- Per lavori submassimali il consumo di ossigeno di un bambino è maggiore del 20% circa (dal 10 al 30%). Quindi il bambino (probabilmente a causa della lunghezza degli arti inferiori che lo obbliga ad aumentare la frequenza) fa più fatica a correre.
- A causa della massa inferiore, il massimo consumo di ossigeno (VO2max) è nettamente inferiore a quello degli adulti. Quindi la potenza aerobica è più bassa. A dire il vero, per un bambino non si può nemmeno parlare di VO2max per il semplice fatto che nel grafico che dà il VO2max in funzione della velocità di corsa manca il plateau caratteristico dell’adulto: mentre nell’adulto all’aumentare della richiesta energetica a un certo punto non aumenta più il consumo d’ossigeno, nel bambino (e, a dire il vero, anche in adulti poco allenati) tale saturazione non c’è perché termina la prova per sfinimento prima di raggiungere il suo VO2max.
- Anche la potenza anaerobica è decisamente minore; il bambino non riesce a produrre e a sopportare elevate concentrazioni di acido lattico (nel bambino è inferiore anche la concentrazione dell’enzima fosfofruttochinasi).
- A parità di consumo di ossigeno, i bambini tendono a ventilare maggiormente rispetto agli adulti.
- A causa di un basso livello di ormoni androgeni, i bambini rispondono molto di meno ai lavori di potenziamento muscolare.
I cinque punti sopraesposti non sono affatto intuitivi. Molti allenatori pensano che si possano riassumere nel banale concetto che il bambino è meno dotato dell’adulto e per allenarlo usano due strategie:
- lo allenano come un adulto meno dotato
- lo allenano su distanze più corte.
Il primo approccio è sbagliato perché il bambino non è un adulto meno dotato, è semplicemente un “non adulto”. Basta considerare l’ultimo punto: per un bambino il potenziamento muscolare è assurdo, mentre potrebbe essere sensato per un adulto poco dotato.
Anche il secondo approccio è sbagliato perché distanze corte presuppongono comunque uno sforzo anaerobico e la produzione di acido lattico, situazioni che nel bambino sono comunque critiche. È infatti tipico del bambino partire troppo forte e poi calare vistosamente quando l’acidosi lattica diventa sensibile.

Per avviare un bambino alla corsa è importante farla vivere come un gioco, privilegiando il contatto con altri bambini
Differenze psicologiche
Possono riassumersi nella minore maturità del bambino. Si devono sottolineare soprattutto due punti: una minore sopportazione della fatica e una gestione delle negatività sicuramente non ottimale.
La minor soglia di fatica è in parte ereditata da un non completo sviluppo fisiologico che rende di per sé la corsa più “difficile”. A ciò si somma una minore determinazione che non aiuta di certo a non sentire la fatica.
Le negatività vengono il più delle volte viste come non necessarie (soprattutto nel bambino che è stato in qualche modo forzato allo sport; si pensi a semplice avversità climatiche) o come frustranti, caso quest’ultimo che si riferisce a sconfitte o a confronti con coetanei che pesano come macigni.
Mentre le differenze fisiologiche sono presenti in tutti i bambini, quelle psicologiche sono pesantemente modulate dall’educazione ricevuta che quindi, di fatto, influenza anche la vita sportiva. Genitori con personalità non equilibrata dovranno evitare di trasmettere al figlio le loro nevrosi e le loro frustrazioni. Il problema, invero di non facile risoluzione, è che spesso i genitori non sono affatto consapevoli dei propri limiti psicologici!
Vediamo due esempi classici: la sconfitta (o mancata vittoria) e il sogno.
Nel caso della sconfitta il bambino può innescare una spirale di solo dramma (di solito manifestata con il pianto) perché non ha ancora elaborato i meccanismi di difesa tipici dell’adulto (per esempio la voglia di rivincita o la positività di un’esperienza comunque utile); risulta pertanto fondamentale che l’adulto lo aiuti a costruire strategie positive di gestione della sconfitta, evitando ogni banale e stupida sottolineatura dell’evento negativo (“se ti impegnerai di più, la prossima volta vincerai”): la situazione va cioè svuotata il più possibile delle connotazioni negative.
Nel caso del sogno (a volte ereditato da un genitore frustrato nelle sue ambizioni sportive), il bambino (come del resto molti adulti con tendenze romantiche) non ha presente la differenza fra sogno e obbiettivo, differenza che deve essere sottolineata fino a una piena comprensione. Se il bambino sogna di vincere le Olimpiadi, sarà saggio insegnargli che nella vita è utile procedere per gradi, cioè per obbiettivi, anziché per sogni: prima è necessario essere fra i primi del proprio istituto scolastico, poi fra i primi ai campionati regionali, poi fra i primi a quelli italiani ecc.
In tal modo, un obbiettivo sfidante, ma non impossibile, potrà aiutare nella costruzione di una sana mentalità sportiva.