Che si provi fatica facendo sport è sicuramente normale ed è cosa nota a tutti; quello che è meno noto è che esistono diversi tipi di fatica e che non è facile effettuarne una misurazione. In questo articolo ci soffermeremo in particolare sulla fatica avvertita da chi pratica la corsa, ma determinate considerazioni hanno comunque una validità generale. Se si confronta lo stato di un atleta dopo una gara di 400 m (il cosiddetto giro della morte) con quello di un maratoneta che ha appena tagliato il traguardo, si potrebbe avere la sorpresa di scoprire che il primo ha un aspetto più stanco, distrutto, penoso. D’altro canto, tutti sanno che si recupera molto più velocemente un giro di pista che una maratona. Queste semplici considerazioni fanno proprio capire che la misurazione della fatica è impresa assai ardua e, probabilmente, non del tutto oggettiva. Il problema è complicato dal fatto che esistono diversi tipi di fatica che agiscono spesso in parallelo, ma con percentuali tipicamente individuali, cioè che pesano ognuna in modo diverso a seconda del soggetto considerato. Esistono sostanzialmente cinque tipi di fatica:
- mentale
- da deplezione di glicogeno
- traumatica
- idrica
- lattacida.
La fatica mentale
La fatica mentale è correlabile con la motivazione dell’atleta (la globalità delle risorse mentali impiegate nell’azione) a compiere lo sforzo e con la sua psicologia. Si considerino due principianti che non amano la corsa, ma corrono solo per dimagrire: chi ha una maggiore forza di volontà sentirà meno il peso della corsa; un soggetto totalmente svogliato si lamenterà, a ogni passo, del fatto che “corre solo perché deve dimagrire”, mentre l’altro “soffrirà in silenzio”.
Personalmente preferisco distinguere la fatica mentale dalla tensione psicologica; quest’ultima è rappresentata dallo stress negativo (distress) che accompagna la corsa: la paura del fallimento, la tensione per il contatto con gli avversari ecc. Si noti che un atleta psicologicamente molto fragile può essere totalmente motivato (fatica mentale nulla), ma soggetto a una tensione psicologica massima.
La fatica mentale non si può misurare, ma in ogni soggetto è facile definire un gap che indica quanto il soggetto “sopporta la fatica mentale”. Ognuno di noi ha una fatica fisiologica massima (FFM, quella che il suo corpo può subire senza andare in crash fisico) e una fatica massima accettabile (FMA) che è quella che la sua psicologia in quel momento (è dipendente dal tempo, alle situazioni) gli consente di accettare.
Il gap mentale è dato dalla differenza FFM-FFA.
Quanto più il gap è grande quanto più il soggetto apparirà “debole” a un osservatore esterno. Osserviamo che, matematicamente, la differenza può anche avere un valore negativo. Se il soggetto prende particolari agenti dopanti (come per esempio amfetamine) può tranquillamente superare la sua fatica fisiologica massima, mettendo in pericolo la sua salute. Uno dei primi clamorosi casi di doping (la morte di Simpson sul Ventoux, circa 50 anni fa) fu proprio dovuta a un superamento della fatica fisiologica massima.
La fatica da deplezione di glicogeno
La fatica da deplezione di glicogeno è la fatica tipica del maratoneta quando incontra il fatidico muro del trentesimo chilometro, ma è del tutto assente sulle distanze brevi. Presente in alcuni sport (per esempio il ciclismo), è assente in molti altri perché la durata del gesto non è tale da esaurire le scorte dell’atleta.
La fatica traumatica
Le lunghe distanze insegnano che un atleta ben allenato su quelle inferiori, se allunga senza allenamento specifico, anche a ritmi blandi, avverte comunque una fatica meccanica, quella che riguarda una “carrozzeria” non ancora pronta per la prova di endurance.
La fatica traumatica si innesca quando si supera la soglia del dolore senza che ci siano i presupposti di uno stop improvviso: dalla banale vescica alla contrattura lieve, dal risentimento tendineo al mal di schiena, la fatica traumatica è decisamente più significativa quanto più si allunga la distanza. Banalmente, se si aspetta in fila a uno sportello per più di un’ora alla fine si sarà indolenziti e il corpo non apparirà riposatissimo.
In genere, come intensità la fatica traumatica è decisamente inferiore rispetto alle altre, soprattutto se la distanza non è tale da portare i semplici fastidi a livello di dolore (il concetto di distanza può essere esteso facilmente ad altri sport: si pensi a un’interminabile partita di tennis o a una partita di calcio ai supplementari). Si può dire che essa è misurata dal livello di dolore che noi proviamo; ovviamente chi ha una soglia del dolore più elevata sarà maggiormente insensibile a questo tipo di fatica.
La fatica idrica
Un tipo di fatica decisamente sottovalutato; si ha quando il soggetto perde una discreta quantità di acqua. I segni e i sintomi sono evidenti: sudorazione, secchezza della bocca e arsura, aumento della temperatura corporea (sensazione di caldo). Per i dettagli si veda l’articolo Disidratazione e prestazione.
La fatica lattacida
Rispetto al sedentario, l’atleta, e il runner in particolare, durante la sua attività innalza il valore del lattato nel sangue; quando questo valore supera certi livelli compaiono sintomi evidenti, il più comune dei quali è il cosiddetto fiatone” (in realtà per sprint brevi il meccanismo anaerobico è alattacido, ma qui si parla soprattutto di corsa di resistenza). Va da sé che, anche andando a velocità facilmente sostenibili, la nostra respirazione diventa un po’ più affannata, prova evidente che abbiamo superato i livelli basali di acido lattico. La fatica lattacida è quella correlata a un aumento del lattato sopra i valori basali.
Se, in altri sport, l’aspetto ludico può portare a sentire di meno questo tipo di fatica, nella corsa, soprattutto se avvertita come costrizione (per esempio il già citato principiante che vuole dimagrire), diventa evidente: il soggetto non avrebbe difficoltà a camminare a lungo, ma la corsa gli provoca disagio.

Esistono sostanzialmente cinque tipi di fatica: mentale, da deplezione di glicogeno, traumatica, idrica e lattacida
Misurare la fatica lattacida
Per misurare la fatica lattacida ci può essere d’aiuto la considerazione che in condizioni di crisi la produzione di lattato aumenta. La figura illustra in modo schematico cosa accade quando corriamo a diverse velocità di corsa (espresse come percentuale del massimo consumo di ossigeno): più andiamo forte più aumenta la concentrazione di lattato nel sangue rispetto a quella basale che convenzionalmente potremmo supporre uguale a 1 mmol/l.
La velocità corrispondente alla soglia aerobica (SAE) per il nostro runner ideale è quella tipica della maratona (2 mmol/l); quella corrispondente alla soglia anaerobica (SAN) è quella relativa alla mezza maratona (4 mmol/l); per velocità superiori, la concentrazione di lattato nel sangue sale bruscamente.
Se si considera l’area sottesa da una delle curve (cioè la parte compresa fra l’asse delle x e la curva) si può avere un’idea della produzione di lattato nei muscoli e, poiché essa dà un’idea della situazione di crisi che l’organismo ha dovuto sopportare, appare ragionevole assumere questa area come misura della fatica fisica dell’atleta ideale.
Data una curva, l’area da calcolare è evidentemente dipendente dalla durata dello sforzo. Così, se è vero che una maratona dura poco più del doppio di una mezza maratona, è anche vero che la concentrazione di lattato durante una maratona è circa metà di quella che si ha nella mezza maratona. Come fatica lattacida le due distanze si equivalgono (si noti che la maratona è mediamente “più dura” perché maggiori sono le altre forme di fatica).
Per le distanze più brevi il discorso cambia radicalmente. Un atleta a livello mondiale sui 1500 m può arrivare a una concentrazione di 24 mmol/l per uno sforzo che dura circa tre minuti e mezzo. Confrontando quest’ultima area con quella corrispondente alla mezza di un atleta che corre per 60 minuti a una concentrazione di circa 4 mmol/l, si scopre immediatamente che è molto inferiore (approssimativamente, 60×4 > 24×3,5): i 1500 m sono meno “faticosi” di una mezza maratona, anche se possono presentare una fatica di picco (la massima concentrazione di lattato) superiore.
Dai 1500 m, allungando la distanza (5000 e 10000 m), l’area corrispondente alla fatica fisica cresce, ma resta inferiore a quella della mezza o della maratona.
Poiché l’area, a parità di lattato, dipende dal tempo della prova, un atleta con prestazioni inferiori fa più fatica di un atleta veloce? No, perché l’atleta più forte riesce a sopportare maggiori quantità di lattato.
Nelle gare brevi (Lacour, 1990) la concentrazione media di lattato nel sangue arriva a valori di picco molto alti quanto più l’atleta è forte: ritornando ai 1500 m, un atleta che li corre in 4’30” arriva non a 24 mmol/l, ma a soli 10 mmol/l: la prova si allunga del 30% circa, ma la concentrazione di lattato si riduce al 42% circa: la fatica fisica è minore. Ciò potrebbe spiegare perché gli amatori riescono a gareggiare molto più spesso dei professionisti pur essendo meno allenati.